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L’età giolittiana

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GIOVANNI GIOLITTI

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Giovanni Giolitti nasce a Mondovì, in Piemonte, nel 1842. Non partecipa attivamente alle guerre risorgimentali, ma sin da giovanissimo si interessa di politica. Nel 1882 viene eletto per la prima volta deputato e nel 1889 è ministro del Tesoro del governo Crispi, carica da cui si dimette subito, per la sua opposizione all’impresa coloniale in Africa orientale. Nel 1892 diventa Primo Ministro, carica che conserva per poco più di un anno, venendo travolto dallo scandalo della Banca Romana.

Richiamato al governo Crispi, Giolitti si mette alla testa dell’opposizione liberale, fautore di un processo di graduale integrazione delle masse e contrario ad una politica estera aggressiva.

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Giovanni Giolitti torna alla guida del paese nel 1903, dieci anni dopo lo scandalo della Banca Romana, dopo essere stato per due anni ministro degli Interni del governo di Giuseppe Zanardelli (nella foto), un governo di svolta, con un programma decisamente riformista.

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Il nuovo governo si forma dopo l’assassinio di re Umberto I, avvenuto il 29 luglio 1900 ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci. L’attentato avviene al culmine di un periodo di forti tensioni, di una repressione sempre più dura e sanguinosa nei confronti dei movimenti sociali, che sembra dovere sfociare in una stretta autoritaria da tempo sostenuta da una parte della classe dirigente italiana, riunita attorno al politico della destra liberale, Sidney Sonnino. Il suo “Ritorno allo Statuto” rappresenta, dunque, il tentativo dei settori più retrivi della società italiana di porre un freno alla pur graduale transizione da un sistema meramente liberale ad uno più compiutamente democratico, approfittando dell’attentato anarchico. Di fatto, si tratta dell’atto di nascita di una destra moderna e aggressiva già presente in altri paesi d’Europa, a partire dalla Francia, pur non presentando alcuna venatura antisemita (lo stesso Sonnino è ebreo) come nel caso dell’Action Francaise d’Oltralpe.

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Il Ritorno allo Statuto sembrava, per altro, già in atto con la formazione di governi destrorsi, uno dei quali guidato addirittura da un militare, il generale Pelloux. D’altro canto, re Umberto I non nascondeva le sue simpatie per la destra, come d’altro canto dimostrato dalla sua decisione di premiare Beccaris dopo la mattanza alla Bicocca di Milano.

La sua uccisione è il pretesto che la destra più radicale cercava da tempo per attuare tale svolta. E tuttavia le forze che vi si oppongono non sono poche e comprendono sia gli industriali e gli agrari del Nord sia le loro maestranze (proletariato di fabbrica e agricolo), passando per vasti strati di borghesia illuminata e settori consistenti del cattolicesimo democratico.

Ed è con queste forze che il successore del re assassinato, il figlio Vittorio Emanuele III, dovrà confrontarsi.

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In linea di massima, si può dire che le forze “vive” del paese, quelle produttive rifiutino un salto nel buio, anche per ragioni economiche. Una stretta autoritaria non farebbe che esacerbare gli animi, rischiando di ottenere proprio l’opposto di quanto si vuole evitare: il dilagare del caos. E il caos non fa mai bene all’economia, cosa che sanno molto bene gli imprenditori del Nord. Naturalmente, il caos non conviene nemmeno alla parte più sindacalizzata del movimento operaio, ormai da tempo avviato sulla strada di una strategia rivendicativa moderna, che rifiuta il ricorso alla violenza se non difensiva. Sono forse questi i motivi che spingono Vittorio Emanuele III di Savoia a optare per un governo liberale e riformista in grado di gettare acqua e non benzina sull’incendio che sta divampando nel paese.

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Il nuovo governo viene affidato al vecchio Zanardelli, a suo tempo già ministro della Giustizia di De Pretis e Crispi (a lui si devono la stesura del nuovo Codice di Commercio e, soprattutto, il nuovo Codice Penale, uno dei più avanzati d’Europa e che prevede l’abolizione della pena di morte), ma è a Giolitti che viene affidato il compito più difficile: il ministero degli Interni, al quale spetta di gestire l’ordine pubblico.

Che cosa farà Giolitti?

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Nelle sue memorie, pubblicate nel 1922, egli scriverà:

Per la politica interna io ritenevo arrivato il momento di avviarsi ad un più decisivo e pratico esperimento dei criteri democratici [...] Io pensavo invece che fosse già arrivato il momento di prendere in considerazione gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari e lavoratrici che in quasi tutto il paese soffrivano sotto la pressione di condizioni economiche, di salario e di vita, spesso addirittura inique, ed avevano cominciato, tanto nelle grandi città industriali che qua e là nelle campagne, ad agitarsi a farsi sentire.

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E ancora:

La principale questione che, in tali condizioni, si poneva alle classi politiche e agli uomini di governo era se questi problemi potevano risolversi con il regime di libertà o se essi richiedevano e imponevano un restringimento di freni e l’adozione di provvedimenti eccezionali. Per conto mio non dubitai un solo momento che la loro retta soluzione non potesse ottenersi che con il mantenimento dei principi liberali e che qualunque provvedimento di reazione per soffocare il malcontento e per impedire la manifestazione delle nuove aspirazioni popolari avrebbe avuto il solo effetto di peggiorare le cose e minacciare le stesse istituzioni.

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Per Giolitti il cosiddetto “Ritorno allo Statuto” era una opzione scellerata:

osteggiare il movimento di opposizione, reprimere le masse non avrebbe potuto avere altro effetto che di rendere nemiche allo Stato le classi lavoratrici.

Ed ecco perché, da ministro degli Interni, egli decide di non intervenire nel conflitto tra capitale e lavoro:

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Un governo che non interveniva mai e non doveva di fatto intervenire quando i salari erano bassissimi, non aveva alcuna ragione di intervenire come qualche volta faceva quando la misura del salario, per la legge economica della domanda e dell’offerta, avesse pure pareggiato una cifra che ai proprietari paresse eccessiva.

Per la prima volta nella pur breve storia dell’Italia, i lavoratori possono contare se non sull’appoggio quanto meno sulla neutralità del governo del paese. Un evento di portata storica, un chiaro segnale alle classi dirigenti del paese: indietro non si torna!

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La politica di Giolitti è, in buona sostanza, rivolta a risolvere l’ormai vecchio (rispetto a quanto accade nei paesi più evoluti) problema della integrazione delle masse. Per troppo tempo il paese legale ha tentato di tenere fuori dal sistema le masse popolari, con gli esiti drammatici che si sono visti a fine secolo.

Occorre, dunque, allargare le maglie dello Stato liberale prima che sia troppo tardi, giungere cioè ad un sistema democratico compiuto, attraverso l’adozione di un sistema a suffragio universale (sebbene per la sola componente maschile). Anche in questo caso, tuttavia, Giolitti agirà con prudenza, pervenendo solo nel 1912 ad una riforma elettorale che, sebbene triplichi gli aventi diritto (dal 7 al 23 per cento del totale), rimane ben lontana dal suffragio universale

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Il ritardo dell’Italia rispetto ai paesi più evoluti anche in questo caso è abissale. Partiti democratici e socialisti rivendicano il suffragio universale già nel 1848. A fine secolo XIX, anche molti partiti conservatori si convertono alla democrazia. Come avviene in Inghilterra, per esempio, dove a contendersi i suffragi sono, a sinistra, il partito socialista (Labour party) e, a destra, quello conservatore (Tory party).

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Le spinte centripete del paese legale impediscono in Italia una simile dinamica: le forze tradizionali si trasformano in blocchi di potere volte ad impedire ogni progresso democratico.

Con l’inasprirsi delle lotte sociali, il sistema politico si è come chiuso a ricci. Con la paura del caos sociale, in alcuni settori della società italiana si vanno affermando, a fine secolo, visioni decisamente reazionarie, volte a riportare le lancette della storia a tempi in cui non esistevano nemmeno le più elementari garanzie liberali.

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E tuttavia i movimenti di opposizione sociale, per quanto compositi, crescono. Gli eccidi del 1898 dimostrano la portata di tali movimenti, sebbene manchi una direzione chiara delle lotte. I socialisti si smarcano, individuando nelle lotte contro il caro-vita caratteristiche pre-industriali, mentre quelle anarchiche non sanno andare oltre l’insurrezione fine a sé stessa, senza offrire un coordinamento tra le varie esperienze.

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L’assassinio di re Umberto determina un’accelerazione spaventosa, tale da spalancare le porte a soluzioni autoritarie. E tuttavia, il nuovo re, Vittorio Emanuele III, mantiene i nervi saldi e per il paese si apre una nuova fase.

Il governo Zanardelli, che ha in Giolitti, ministro degli Interni, uno dei suoi punti di forza, rappresenta, dunque, una svolta quasi rivoluzionaria per il paese, che si concretizza immediatamente con la cessazione degli eccidi proletari. Un nuovo clima che viene immediatamente recepito dai vertici del Psi, che, di fatto, appoggiano dall’esterno il governo.

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Per Zanardelli e Giolitti, dunque, il riformismo rappresenta l’unico antidoto al caos, dunque anche una risposta ai timori di vasti settori dell’opinione pubblica moderata, che teme la rivoluzione.

Insomma, il riformismo è l’unica risposta ai tempi moderni, che sono tempi di massificazione massiccia. Dunque, non si può pensare di tenere le masse completamente fuori dai processi decisionali.

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Riformismo, dunque, e non rivoluzione: questo significa che all’ordine del giorno non c’è alcuna redistribuzione delle risorse, che i rapporti tra le classi e le gerarchie sociali non verranno toccati, semmai appena ridefiniti. L’obiettivo immediato è quello di stemperare le tensioni e di fare ripartire l’economia del paese e poi di avviare una serie di riforme in grado di rafforzarla. Non è prevista, al momento, alcun uso della forza: il governo intende operare al contrario attraverso una logica di compromessi tra le parti in causa, stabilendo in primo luogo un patto tra le forze produttive, tra capitale e lavoro.

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Un patto che altre società più avanzate avevano già sottoscritto secoli orsono, ai tempi delle rivoluzioni borghesi. Ma in Italia non si è avuta alcuna rivoluzione borghese. Le rendite, i ceti improduttivi, rappresentano ancora una fetta consistente della nuova economia e sono proprio questi settori i più diffidenti nei confronti della democrazia.

Il patto conviene sicuramente agli operai, che vengono in tal modo riconosciuti come forza sociale, trattati alla pari della loro controparte, quella padronale, che in cambio ottiene la pace sociale nei luoghi di lavoro, necessaria per fare ripartire la produzione.

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Nel 1903, Zanardelli muore. Gli succede proprio Giolitti, che continua a mantenere il dicastero degli Interni. In poco tempo, il Primo Ministro mette in piedi un vero e proprio sistema di potere. Il patto tra le forze produttive, che gli ha consentito di superare la difficile contrapposizione di fine secolo, si trasforma in una alleanza non solo sociale ma anche, e soprattutto, politica. Le forze più illuminate della borghesia italiana presenti in Parlamento e i settori più moderati del Psi sostengono l’azione riformista del governo. E tuttavia ora non si tratta più solamente di mantenere la pace sociale e fare ripartire l’economia, ma di governare un paese. E per farlo servono maggioranze ben più ampie, nel paese legale (Parlamento) come nel paese reale.

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Il sistema di potere giolittiano

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Il patto tra le soli classi produttive non è sufficiente: d’altro canto, tali forze rappresentano, anche dal punto di vista geografico, solo una piccola parte del paese, quel triangolo industriale che guarda all’Europa industrializzata. Ma nel resto del paese non esistono industrie né una classe operaia moderna e sindacalizzata. Esistono invece politici di professione, latifondisti e notabili, un’Italia che il progresso non ha né cancellato né ridimensionato e di cui Giolitti non può non tenere conto se vuole continuare a governare. Ecco allora spiegata l’alleanza con i ceti improduttivi.

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La contraddizione è evidente ed antistorica: mettere insieme i ceti produttivi e dinamici della società con quelli improduttivi e clientelari significa sacrificare una parte del paese, condannandola alla immobilità. I ceti improduttivi non chiedono altro che favori, offrendo in cambio il proprio voto e quello dei loro parenti o amici. Interessi particolari, dunque, che non intercettano quasi mai le esigenze dei cittadini. Un patto tra privati in nome non dell’interesse generale e del benessere della nazione, ma di interessi particolari e del benessere di singoli uomini. Voto di scambio e clientelare, un cancro della politica italiana che ha inizio proprio in questi anni, che contribuisce al degrado di intere zone del paese, a partire dal Mezzogiorno.

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Il parlamentare socialista Gaetano Salvemini (nell’immagine a fianco) bollerà Giolitti come “ministro della malavita”, un giudizio forse troppo severo per l’uomo che ha “sdoganato” il Psi, portandoli al tavolo delle trattative con la classe padronale, che ha migliorato le condizioni di lavoro per centinaia di migliaia di lavoratori. E tuttavia è un fatto che il sistema clientelare alimenterà la malavita locale, in particolare nel Mezzogiorno del paese, rafforzando quella già esistente.

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Il ruolo del PSI

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Uno dei perni dell’alleanza politica e sociale costruita da Giolitti nella sua prima fase di governo è rappresentato dal Partito Socialista Italiano, di ispirazione marxista. Il Psi nasce nel 1892, quando il paese è attraversato da forti tensioni sociali. Troppo presto per potere trasformare i moti che attraversano l’Italia non solo in una rivoluzione sociale (che appare ben lontana, date le condizioni del paese) ma anche solamente in un movimento politico degno di questo nome. Il Psi confluisce in tal modo in un vasto movimento riformista, il cui obiettivo è quello di fermare i fautori del ritorno allo Statuto e di fare ripartire l’economia del paese senza modificare nel profondo i rapporti di classe nel paese.

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Le condizioni in cui viene alla luce il Psi sono dunque difficilissimi: migliaia di militanti finiranno in galera, altri uccisi nel corso delle manifestazioni di piazza. Una genesi che non potrà non influire sulla azione politica del partito, anche quando le condizioni mutano. La scelta di accettare il patto tra lavoratori e capitale proposta da Giolitti è anche frutto di questa drammatica biografia, un patto che sicuramente conviene ad una parte della classe operaia, ma che taglia fuori la gran massa dei lavoratori italiani, che non ha la fortuna di lavorare nelle fabbriche del Nord. E questo contribuisce a scavare un solco tra una classe dirigente sempre più riformista ed una base che si orienta, al contrario, verso posizioni di radicalismo rivoluzionario, non lontane dalla prassi politica dell’anarchismo insurrezionalista.

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I RIFORMISTI

Rappresentano la maggioranza del gruppo parlamentare, guidata da FIlippo Turati. Riformisti sono i politici più in vista del partito, come Claudio Treves e Anna Kuliscioff. Riformista è anche la maggioranza della CGIL.

I MASSIMALISTI

Sono coloro che propendono per il programma “massimo”, la rivoluzione, e che dunque si oppongono ad ogni forma di gradualismo, che giudicano borghese. Sono forti in alcune Camere del Lavoro. Li guidano in questi anni Arturo Labriola ed Enrico Ferri.

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turati

labriola

kuliscioff

ferri

treves

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Nel 1903, Giolitti offre a Turati di entrare a far parte del governo. Siamo alla vigilia di una svolta storica: il leader di un partito socialista e formalmente rivoluzionario che entra a far parte di un esecutivo di uno Stato formalmente borghese. Ma questa svolta non avviene. Turati, infatti, rifiuta l’offerta.

Perché?

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I successi del governo Giolitti sono innegabili: non si spara più sugli operai in lotta e le organizzazioni sindacali siedono stabilmente al tavolo delle trattative con quelle padronali. E tuttavia gli effetti riguardano solo una esigua minoranza della classe operaia italiana, quella delle grandi fabbriche del Nord. Ne sono esclusi i lavoratori delle piccole aziende anche dello stesso triangolo industriale, quelle, poche per la verità, delle altre zone del paese per non parlare dei contadini. E così, già nel 1902, la maggioranza degli iscritti vota per l’anima più radicale del partito, quella di Labriola e Ferri, ed è proprio questa maggioranza a spingere Turati a rifiutare l’offerta.

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Il rifiuto di Turati ha effetti anche sulla stessa alleanza tra il gruppo parlamentare socialista e il governo, che si allenta di giorno in giorno. La crisi politica determina una recrudescenza delle tensioni sociali. Nell’autunno del 1904 la polizia spara sui minatori del Sulcis: non accadeva dal 1901. Le organizzazioni sindacali indicono sciopero generale, il primo da tre anni. Giolitti risponde con le dimissioni, sfidando apertamente il movimento sindacale e lo stesso Psi che lo ha abbandonato e trasformando le elezioni in un referendum sulla sua persona.

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Le elezioni del 1904 e il nuovo corso della politica giolittiana

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Le elezioni del 1904, fortemente volute da Giolitti per contrastare i socialisti, vedono un sostanziale arretramento del governo. L’avanzata della destra liberale risponde ai timori diffusi in vasti strati conservatori della società italiana sulla ripresa della conflittualità sociale. �Non è dunque un caso che il paese vanga guidato da Sidney Sonnino, fautore, nel clima infuocato di fine secolo, di una stretta autoritaria che avrebbe restituito tutti i poteri al re (come nella costituzione sabauda del 1848) ma ora leader di una destra che intende accettare le sfide della modernità in un’ottica conservatrice. E tuttavia, Sonnino può contare su una maggioranza talmente risicata che il governo cade dopo soli tre mesi. Al suo posto viene chiamato Alessandro Fortis, amico di vecchia data di Giolitti, che riesce a far approvare la nazionalizzazione delle ferrovie, provvedimento fortemente voluto proprio da Giolitti.

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Nel 1906 Giolitti torna al governo. Ora non può più contare sui voti dei socialisti e questo imprime alla sua azione di governo caratteristiche decisamente meno innovative, ma pur sempre in un’ottica riformista. I rapporti triangolari con le forze sociali proseguono, ma in maniera differente, coinvolgendo cioè non i diretti interessati bensì le loro organizzazioni burocratiche, come, per esempio, la Confindustria e la Cgdl.

Un sistema decisamente più ingessato, dunque, e tuttavia non per questo meno efficace del precedente, come dimostrano tutti gli indicatori economici, che continuano a crescere. E, infatti, Giolitti ottiene uno straordinario successo nelle elezioni del 1909.

Ma perché allora Giolitti non torna alla guida del paese dopo le elezioni?

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La mossa di Giolitti spiazza tutti. Da buon politico di razza, lo statista piemontese gioca una vera e propria partita a scacchi. Dovendo puntare su provvedimenti che rischierebbero di spaccare la maggioranza se presentati da lui o dal suo partito, decide che sia il Parlamento, in maniera autonoma, a farsene carico, lasciando il governo ad altri. Una scena già vista dopo le elezioni del 1904, con il governo prima nelle mani di Sonnino e quindi di quelle dell’amico Fortis. Anche in questo caso, l’incarico viene affidato a Sonnino e proprio come cinque anni prima il governo cade dopo poche settimane. E, ancora una volta come nel 1905, la palla passa ad un amico di Giolitti, Luigi Luzzati

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Il governo amico consent a Giolitti di muoversi da dietro le quinte, manovrando tutte le sue pedine senza esporsi direttamente. L’obiettivo principale è il varo di una nuova legge elettorale. Non si tratta del tanto agognato suffragio universale e tuttavia la legge varata nel 1912 è quanto di più avanzato si potesse ottenere allora, visti i rapporti di forza. Si tratta di triplicare gli aventi diritto, passando dal 7% al 23% del totale, un allargamento potenzialmente in grado di stravolgere il quadro politico italiano e che costringe lo stesso Giolitti ad allargare la propria base sociale.

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I cattolici: dal non expedit al Patto Gentiloni

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La presa di Roma del 1870 da parte dell’esercito italiano determina la fine del secolare Stato pontificio. Papa Pio IX risponde alla “offesa” perpetrata dalle armi italiane con una bolla, il non expedit, che impedisce ai cattolici di partecipare alla vita politica della nazione

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E tuttavia già nel 1891 papa Leone XIII vara una nuova bolla, la rerum novarum, con la quale si invitano i cattolici ad impegnarsi nella vita sociale del paese. Una parzialissima sconfessione della politica di totale chiusura di Pio IX. Nascono le leghe bianche, soprattutto nelle campagne, che spesso si trovano a lottare insieme ai socialisti

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Le drammatiche vicende di fine secolo non possono non avere effetti sul mondo cattolico, ancor più dopo il rerum novarum, che ha consentito loro di impegnarsi attivamente nella società. Le leghe bianche lottano a fianco di quelle rosse in questo periodo, sfidando apertamente le autorità. Per le classi dirigenti del paese, quelle più retrive, il pericolo ha due facce: una rossa, rappresentata dal socialismo, e l’altra nera, il colore dei preti, vale a dire dell’altra forza considerata antisistema.

Ma chi sono i cattolici italiani?

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Bisogna premettere che gli italiani, se si considera la percentuale dei battezzati, sono in larghissima maggioranza quasi tutti cattolici. Ma un conto è essere battezzati un altro è essere praticanti. Il numero di questi ultimi è altrettanto alto, sebbene lontano da quello dei battezzati. Questo significa che un numero considerevole di cattolici non segue le direttive del papa e si dedica alla politica

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Ma da che parte stanno i cattolici?

Il mondo cattolico non è un monolite e per quanto possa obbedire al papa, si trova spesso diviso al suo interno.

In linea di massima, anche qui si trovano una destra e una sinistra.

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le gerarchie cattoliche

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Le gerarchie cattoliche, a partire dal vertice, rappresentato dal papa, rappresentano e rappresenteranno a lungo l’anima più conservatrice, se non reazionaria, del cattolicesimo italiano ed internazionale. Ed è per questo motivo che, passata la buriana di fine secolo, si avvia una graduale e naturale convergenza tra queste e le forze conservatrici della destra liberale. Nel 1907 papa Pio X emana l’enciclica Pascendi Dominici gregis, nella quale si condanna “l’errore moderno”, vale a dire il cosiddetto “modernismo”, un movimento che vuole adeguare la chiesa ai tempi. Una rivendicazione di integralismo e di assoluto rispetto delle autorità che finisce per avere ripercussioni anche sul piano politico: le gerarchie si schierano apertamente contro i movimenti sociali, anche quelli cattolici, e in difesa dell’ordine costituito.

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Il suffragio universale maschile pone un problema di non poco conto per la destra liberale come per lo stesso Giolitti che lo ha fortemente voluto, quello di contendere l’elettorato ai socialisti. Ma nessun politico liberale ha la forza di farlo. I cattolici, con le loro organizzazioni sul territorio, sì. Ma c’è un ostacolo non di poco conto, il non expedit. E tuttavia la chiesa non è più quella del 1870, come d’altro canto dimostra il varo della rerum novarum.

IL PATTO GENTILONI

Nel corso dei primi anni del Novecento, le gerarchie allentano sempre più le maglie, fino a consentire ai cattolici di partecipare alle elezioni parlamentari, vietando tuttavia di farsi eleggere. I cattolici si trasformano in tal modo in una potente lobby politico-elettorale.

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Nasce l’Unione Elettorale Cattolica Italiana, presieduta dal conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, che può contare su numerosi iscritti e, soprattutto, sull’appoggio delle gerarchie ecclesiastiche. Sono in molti a corteggiarla, ma è sicuramente Giolitti a partire avvantaggiato, in quanto favorito numero uno ad occupare il posto di Primo Ministro. E’ il Patto Gentiloni, che comporta, per coloro che lo firmano, vale a dire per i giolittiani, il rispetto assoluto per gli interessi di Santa Romana Chiesa e dunque la rinuncia a punti essenziali del loro programma, come l’innalzamento dell’obbligo scolastico, la legge sul divorzio e l’allargamento del suffragio alle donne, in una parola, la laicità dello Stato. Un prezzo salatissimo, tuttavia necessario a Giolitti per potere continuare a governare.

IL PATTO GENTILONI

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la base cattolica

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La base cattolica è tuttavia schierata, in maggioranza, su posizioni decisamente più progressiste: le organizzazioni di base del cattolicesimo italiano sfidano sullo stesso terreno quelle socialiste, vale a dire sul piano della lotta sindacale, e in taluni casi collaborando con le leghe rosse. Le leghe bianche sono forti soprattutto nelle campagne e in particolare in quelle del Veneto e del Mezzogiorno.

Uomo più rappresentativo del cattolicesimo democratico è don Romolo Murri, fondatore della Democrazia Cristiana, una organizzazione che opera nel sociale, con posizioni spesso radicali quanto quelle dei socialisti, pur rifiutando la lotta di classe e, naturalmente, l’ateismo.

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA DI MURRI

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Don Murri non predica certo la rivoluzione. Egli si rifà esplicitamente all’enciclica rerum novarum, impegnandosi a fondo nella società italiana, per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari e contadine in particolare. Quanto basta per attirare su di sé i sospetti delle gerarchie cattoliche, che si intensificano con la lotta che la Chiesa cattolica conduce contro il modernismo, un concetto molto vasto, nel quale è facile far

LA DEMOCRAZIA CRISTIANA DI MURRI

rientrare sia il socialismo sia la stessa democrazia. Papa Pio X interviene duramente contro “quella parte del clero che manifesta spirito di insubordinazione e di indipendenza” vietando a vescovi e preti di aderire alla Democrazia cristiana. Pochi mesi dopo, Murri viene sospeso a divinis. Ma il sacerdote non si arrende e nel 1909 si presenta nelle fila dei democratici alle elezioni parlamentari, cosa che gli costa la scomunica

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la guerra di Libia

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PERCHE’ UNA GUERRA?

Giolitti è sempre stato un uomo di pace, più per ragioni pratiche che ideologiche. Egli, infatti, ha sempre pensato che solamente la pace, interna ed esterna, favorisca il progresso di una nazione. E infatti, ai tempi dei governi Crispi, egli si era opposto all’avventura coloniale tragicamente conclusasi con la sconfitta di Adua. Ma se così stanno le cose, allora perché egli decide, da primo Ministro, di guidare il paese nella sua seconda avventura coloniale, non lontano dalle coste della Sicilia, in Libia, allora possedimento ottomano?

�Le ragioni sono molteplici.

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LA DESTRA NAZIONALISTA

Quando l’Italia dichiara guerra all’Impero ottomano per la Libia, nel settembre 1911, il paese sta vivendo un periodo felice: tutti gli indicatori economici sono positivi, la conflittualità sociale parzialmente attenuata, i socialisti sono divisi al loro interno e Giolitti marcia verso un accordo con le forze cattoliche in vista delle elezioni del 1913 con la nuova legge elettorale. E tuttavia il clima nel mondo sta cambiando: nubi nere si addensano all’orizzonte. La spartizione del mondo è terminata e le tensioni che l’Europa aveva saputo dirottare al di fuori dei propri confini, ormai vi hanno fatto ritorno, incendiando i Balcani, zona in cui gli interessi contrapposti tra le grandi potenze sono a diretto contatto.

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LA DESTRA NAZIONALISTA

Le destre nazionaliste, una buona fetta di borghesia intellettuale affascinata dal mito dell’azione diretta e animata dalla propaganda futurista reclama una politica più aggressiva e i ceti industriali sono sempre più convinti che la guerra rappresenti un affare più che una tragedia: a loro il paese appare ancora troppo piccolo, una “italietta”, e la colpa è dei politici tradizionali (e corrotti) a cominciare da Giolitti.

Dunque, il primo Ministro risponde alle pressioni di una fetta del paese consistente e, soprattutto, determinante ai fini della tenuta del suo sistema di potere, di cui il principale pilastro è rappresentato proprio dagli industriali. Spinte aggressive che si fanno sentire anche tra i ceti aristocratici del Mezzogiorno, altro pilastro del sistema di potere giolittiano, smaniosi di approdare in nuove terre da feudalizzare.

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L’ALLEANZA CON LE GERARCHIE CATTOLICHE E I POTERI FORTI

Ma determinanti sono anche i rapporti che Giolitti sta intrattenendo con le gerarchie cattoliche, con il fine di sfidare i socialisti nelle prime elezioni a suffragio (quasi) universale della storia italiana. Già prima della firma del Patto Gentiloni, Giolitti si trova ormai legato al mondo cattolico che conta, il quale ha nella Banca Romana una dei suoi punti di forza. E la Banca Romana ha non pochi interessi in Libia, interessi che le autorità ottomane hanno intaccato negli ultimi anni. Inoltre, è evidente che dichiarare guerra ad uno Stato islamico trasforma il conflitto in una sorta di guerra santa, conquistando fette consistenti di pubblica opinione, storicamente lontana dai liberali.

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L’ALLEANZA CON LE GERARCHIE CATTOLICHE E I POTERI FORTI

E’ comunque ancora una volta la Banca Romana la gioia e il dolore dell’azione di governo di Giolitti: nel 1893 affossò la prima esperienza di governo del politico piemontese e oggi dovrebbe sancirne una straordinaria vittoria. A dirigere l’istituto bancario è Ernesto Pacelli, zio del futuro papa Pio XII. Con l’inasprirsi delle tensioni tra i due paesi, le autorità turche cominciano a limitare le attività dell’istituto bancario, scatenando le ire del governo italiano. A questo punto a soffiare sul fuoco sono le grandi imprese, che fiutano l’affare: in primo luogo le industrie pesanti, la cantieristica navale, le industrie delle armi, delle macchine, degli aerei, quindi tutte le altre. Infine, arrivano i nazionalisti e i grandi giornali, che condizionano gli umori dell’opinione pubblica, quanto meno di quella borghese.

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LA GUERRA

La guerra ha inizio il 29 settembre 1911 e durerà, formalmente, un anno. Formalmente, in quanto solo la Cirenaica e la Tripolitania, vale a dire la costa libica, risulteranno effettivamente conquistate dall’esercito italiano. Non così le sterminate terre dell’interno, una immensa distesa di sabbia infuocata, abitata da popolazioni nomade, che combatteranno ancora per più di dieci anni contro gli italiani.

L’euforia per la vittoria è tanta, ma si spegnerà presto. La Libia non è quell’Eldorado che era stato promesso e la guerriglia libica contribuisce a rendere la vita dei primi coloni particolarmente difficile e pericolosa. In realtà la Libia è un paese ricchissimo e tale ricchezza non è nelle zone occupate dall’esercito sabaudo, ma sta sotto la sabbia del deserto: il petrolio.

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LA SCONFITTA DI GIOLITTI

Giolitti ha vinto la sua ennesima battaglia, ma si tratta di una amara vittoria. La guerra, infatti, ridà fiato a quell’Italia ostile al riformismo e alla democrazia che era stata sconfitta nel 1900, priva com’era di rappresentanza politica. Ma ora i tempi sono cambiati: all’orizzonte si affaccia una nuova forza, una destra aggressiva, il Partito nazionalista, che nasce appena un anno prima dello scoppio del conflitto, un anno passato ad accusare Giolitti di essere il rappresentante del passato, di una “italietta” fuori dalla storia. Futuristi e nazionalisti sono i veri vincitori della guerra di Libia in primo luogo perché non vogliono fermarsi lì e reclamano per l’Italia un posto tra le grandi potenze europee. Dieci anni prima erano loro fuori dalla storia, ma ora lo è proprio Giolitti. La guerra di Libia non è che la prima di una lunga serie. Nel 1912 scoppia la I Guerra balcanica, la prima avvisaglia della grande tragedia che di lì a due anni si abbatterà sul mondo intero.

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LA ELEZIONI DEL 1913

Le elezioni vennero del 26 ottobre 1913 sanciscono la sconfitta anche politica di Giolitti: il governo perde quasi 70 seggi, mentre i socialisti, contrari alla guerra di Libia, li raddoppiano. Buoni risultati anche per i democratici radicali che tuttavia decidono di passare all’opposizione, facendo mancare la maggioranza al governo.

Giolitti si dimette il 7 marzo 1914. Il nuovo governo viene guidato da Antonio Salandra, con l’importante ministero degli Esteri in mano a Sonnino. Importante perché si è aun passo dallo scoppio della I Guerra Mondiale.

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L’età giolittiana:

un bilancio

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Produzione industriale italiana

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età giolittiana

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La produzione industriale nel 1915 è tre volte quella del 1885. Non è ancora il decollo industriale che il paese sta attendendo (questo avverrà solamente dopo la guerra), ma significa che il paese è riuscito ad aggrapparsi al treno del progresso, di quella II Rivoluzione industriale che si è avviata all’indomani della crisi del 1873. Giolitti non ha tuttavia corretto le distorsioni di un sistema economico che ha deciso di sacrificare la gran parte dell’Italia per favorirne una piccola parte, quel triangolo industriale dove sorgono la quasi totalità delle principali industrie italiane, come la Fabbrica Italiana Auto Torino (Fiat), fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli, o come la Anonima Lombarda Fabbrica Automobili (Alfa) di Milano, fondata nel 1910, o come l’Ansaldo di Genova, una delle industrie più importanti della cantieristica mondiale.

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Ma è soprattutto nel campo dell’energia elettrica che l’Italia riesce a primeggiare, soprattutto con la Edison. L’Italia è un paese privo di materie prime: niente petrolio e poco carbone, quello del Sulcis. Ci vorranno ancora cinquant’anni prima di scoprire il gas in Pianura Padana. E tuttavia è un paese ricco di montagne, con molti ghiacciai e numerosi corsi d’acqua. Ebbene, l’energia fornita dall’azione combinata di montagne ed acqua consentirà al nostro paese di ridurre il deficit nella bilancia dei pagamenti determinato dalla importazione di materie prime dall’estero.

Se negli ultimi anni dell’Ottocento venivano prodotti solo 100 milioni di chilowattora, nel 1915 si passa a ben 2.575 milioni. Ed è l’energia elettrica a favorire la crescita delle industrie del Nord.

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Anche l’industria chimica cresce enormemente in questi anni, soprattutto grazie alla Pirelli di Milano, fondata dalla omonima famiglia nel 1872.

Sempre al Nord, ma lontano dal caos e dalla conflittualità sociale delle grandi città sorge la Olivetti, fondata da Camillo Olivetti nel 1908 e destinato ad enorme successo nel campo della produzione di macchine da scrivere

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considerazioni storiografiche

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“Lo sviluppo industriale, i progressi sia pure limitati dell’agricoltura e la stabilità finanziaria procurarono a gran parte degli italiani un maggiore benessere e condizioni di vita notevolmente migliori. Tra il 1896-1900 e il 1911-1915 il reddito nazionale pro capite aumentò del 28%. […] Il tasso di mortalità scese dal 26,7 per mille nel 1887-91 al 19,2% nel 1910-14; la probabilità di vita alla nascita che nel 1871-75 era stata di 7 anni, salì nello stesso periodo da 20 a 31 anni. Il governo si attivò per combattere numerose malattie, tra cui la pellagra, dilagante nel Settentrione a causa della monocoltura del mais. […] Con l’aumento del numero delle scuole e degli insegnanti, l’analfabetismo diminuì e la frequenza nelle scuole aumento: tra il 1900 e il 1913 le spese per l’istruzione furono triplicate, pur continuando a rappresentare soltanto il 4% delle spese totali.

Robert William Seton-Watson

storico inglese di fine ottocento e inizio novecento

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“Nel 1914 l’Italia era un paese in cui era molto più piacevole vivere di quanto non fosse nel 1900. Era ormai uno dei paesi industriali d’Europa; un decennio di progressi e di prosperità crearono uno sconfinato orgoglio nazionale, che trovò espressione nelle celebrazioni del Cinquantenario dell’Unità nel 1911. Ma l’Italia era partita con tanto ritardo rispetto ai paesi dell’Europa settentrionale e occidentale che il divario era ancora enorme: il tasso di mortalità era diminuito, ma era ancora il più elevato d’Europa, tranne che in Spagna, in Ungheria e in Russia; il reddito pro capite del 1911-13 era ancora poco più della metà della Germania e meno di un terzo dell’Inghilterra; l’alimentazione quotidiana dell’italiano medio conteneva il 20% di calorie in meno rispetto a quella dell’inglese medio. Dal punto di vista industriale, l’Italia non aveva raggiunto nemmeno l’Austria-Ungheria”

Robert William Seton-Watson

storico inglese di fine ottocento e inizio novecento

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“Fu merito di Giolitti avere intuito con lucidità che solo stando a sinistra era possibile svolgere un’azione di governo fecondamente conservatrice, dal momento che la persistente assenza politica del cattolicesimo impediva il sorgere di un vero e proprio partito conservatore. Stare a sinistra significava modificare profondamente il tipo di alleanza grazie al quale Depretis aveva esteso l’egemonia della classe dirigente e sulla quale si era basata e si sarebbe basata ogni direzione politica conservatrice, una sorta di fronte unico della borghesia. Stare a sinistra significava contrapporre a questa alleanza un’altra alleanza che faceva del movimento operaio nell’industria e del movimento contadino della Valpadana gli interlocutori privilegiati della parte più attiva e liberale della boghesia e il tramite per legare all’alleanza stessa i ceti medi orientati a sinistra”

Guido Carocci

intellettuale italiano

di fine ottocento e inizio novecento

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“Era la vita maestra della democrazia moderna, della democrazia industriale. Era la via maestra per rendere equilibrata una società moderna, integrandovi la classe operaia e inducendola ad assumere i caratteri della piccola borghesia radicale. […] La natura di classe dello Stato non scompariva, ma si spostava, per un verso immettendo tra i gruppi dominanti i nuovi ceti industriali e per un altro verso dando, per così dire, diritto di cittadinanza alla spinta rivendicativa del movimento operaio. Era il passaggio da una struttura economica basata sulla terra e sulla banca di vecchio tipo a una struttura basata sull’industria e sul capitale finanziario”

Guido Carocci

intellettuale italiano

di fine ottocento e inizio novecento

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“Furono quelli, in Italia, gli anni in cui meglio si attuò l’idea di un governo liberale, del quale neppure bisogna coltivare un’idea astratta, cioè di così sublime perfezione da disconoscerlo poi nella sua concreta esistenza, e con tale disconoscimento disporre gli animi a negargli realtà e valore; il che nasce appunto da quella utopistica ed esasperata e disperata idea di libertà, che infine si volge coi denti contro se stessa”

Benedetto Croce

uno degli intellettuali più noti del Novecento. Politico liberale e leader antifascista

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“La politica giolittiana, soprattutto dal 1900 in poi appare tutta costruita sulla richiesta della collaborazione governativa con il partito della classe operaia e con i suoi uomini più rappresentativi. Giolitti non intendeva certo, con l’offerta fatta a Turati, di rendere quel partito più forte. Voleva certamente togliergli o minarne, insieme con l’unità, l’energia innovatrice. […] Non si può negare che in Giolitti vi fosse, per lo meno, la intuizione del problema come problema non di polizia, ma di indirizzo economico e politico. Egli vedeva, cioè, che non bastava che i gruppi dirigenti tradizionali resistessero sulle vecchie posizioni, ma occorreva cambiare qualche cosa nel vecchio modo di vivere e di governare.

Palmiro Togliatti

leader del partito comunista italiano negli anni del fascismo fino al 1964

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“Anche per i contadini Giolitti reclama miglioramenti economici; in concreto, però, si riferisce soltanto al salario dei braccianti siciliani o padani. Ignora la questione centrale, che è quella della terra e del suo possesso da parte di chi la lavora. […] La sua azione economica e sociale è quindi limitata, unilaterale. Tutto sommato, tra gli uomini politici della borghesia egli si è spinto più innanzi, sia nella comprensione dei bisogni delle masse popolari, sia nel tentativo di dare vita a un ordine politico di democrazia, sia nella formulazione di un programma nel quale si scorge, anche si in germe, la speranza di un rinnovamento”

Palmiro Togliatti

leader del partito comunista italiano negli anni del fascismo fino al 1964