Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto,
dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io
sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e
lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo.
5 Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella
Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti,
erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà
quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini
scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico
10 dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla
bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a
un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle
modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi
polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di
15 lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima
baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio
primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito
un simile prodigio.
Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la
20 vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di
sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad
una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa?
Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al
rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia
25 del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come
pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi
chiedevano umilmente di toccarla col dito.
Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo
l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha
30 l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto (1). Ma
sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco
nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita
nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si
doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad
35 ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo
fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si
diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo.
Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della
maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile
40 coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il
cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e
la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e,
come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma
lui a tutte quante preferiva me.
45 La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un
genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura
issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate
soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno
in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti
50 che hai.
Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di
madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si
confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí
me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva
per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e
affabilità, mi carezzò la guancia.
Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio
pianeta deserto e corrusco (2), mi riconduceva per vie segrete alla terra.
1. con viso compunto: con viso afflitto, triste.
2 corrusco= fiammeggiante