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Voce narrante dalla Ramallah occupata
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Scrive romanzi molto diversi, ma con qualche tratto in comune: sono divertenti, raccontano di situazioni tragiche e parlano di persone che l’autrice conosce bene. Al Festival di Babel 2011 di Bellinzona è arrivata Suad Amiry con i suoi tre romanzi pubblicati da Feltrinelli: Sharon e mia suocera, Niente sesso in città e Murad Murad.

Figlia un uomo palestinese fuggito da Jaffa e di una donna siriana di Damasco, è cresciuta come rifugiata in Giordania, ha vissuto al Cairo e da circa venti anni è tornata nella terra paterna, a Ramallah. “Per questo, quando mi chiedono da dove vengo, dico genericamente che sono araba. La mia identità l’ho costruita dapprima nella mia immaginazione. Sentivo i racconti sulla casa dei miei nonni, la mia città, il paese di mio padre e di un popolo che viveva in Palestina prima del 1948. La mia era una famiglia dalle idee molto aperte; di sinistra, se vogliamo parlare in termini politici; ho avuto le stesse libertà di mio fratello, forse ancora di più. Al momento di scegliere una carriera, mio padre ha detto: tutto ciò che vuoi, basta che ti piaccia. L’unica cosa che non ho mai pensato è di fare la scrittrice, perché sono dislessica. Allora, visto che scrivo e leggo molto lentamente, ho sviluppato una buona parlantina, la capacità di fare scherzi e di giocare con le parole”.

Ha studiato e poi insegnato architettura, ‘più per conservare che per costruire’, e ha creato un’Ong a duplice scopo: creare posti di lavoro tramite la conservazione dei beni culturali. La clausola per gli aiuti dall’estero è che le maestranze, dall’architetto all’operaio, siano del luogo.

Passiamo alla scrittura. “A 50 anni ho scoperto che ci si può sedere davanti al computer e scrivere come si parla. È così che ho fatto il mio primo libro. Nel 2003 Israele ha occupato Ramallah, città di 70mila abitanti. Per 42 giorni c’è stato il coprifuoco, non potevamo nemmeno uscire in balcone. Avevamo due ore di libera circolazione ogni tre giorni per andare a fare la spesa. Immaginatevi, settantamila persone che vanno a fare la spesa allo stesso momento… Comunque, appena ho potuto mettere il naso fuori casa sono andata a prendere mia suocera, che grazie a dio di solito abita da sola. L’ho portata a casa per vivere con noi. Ecco, direi che ho cominciato a scrivere per sopravvivere, per sfogarmi. Se mi chiedete quale occupazione era peggio tra quella dell’esercito o quella di mia suocera non ho dubbi. Ad Ariel Sharon non perdonerò mai di avermi fatto passare quaranta giorni d’inferno chiusa in casa con la madre di mio marito”.

Un’amica italiana che riceveva le mail sulla suocera ha fornito il contatto con Feltrinelli e Suad ha trovato la sua vena. Il secondo romanzo è No Sex in the City, niente sesso a Ramallah. È il racconto del suo gruppo di amiche, tutte in menopausa tranne una, che si trovano a cena ogni mese e si scambiano confidenze.

“Quando dici che sei palestinese, le persone diventano improvvisamente serie e nei loro occhi passano immagini di miseria, disperazione, morte. Io racconto storie di una nazione che ha voglia di vivere. Parlo dell’occupazione israeliana in quanto impedisce alla mia famiglia, ai miei conoscenti, al mio popolo, di vivere una vita normale. Non parlo di uccisioni e di arresti, ma della quotidianità della gente comune. I media si interessano di morte; mentre al Festival di Babel interessa la vita e presenta un paese che vive, fa film, scrive poesie, libri”.

L’ultimo testo ha la forma del reportage. È stato scritto tra il 2007 e il 2008  e vuole parlare del muro. Murad è un lavoratore palestinese di 21 anni, uno dei 150 000 che con il muro ha perso il lavoro e la possibilità di cercarne un altro. “Io, pur occupandomi abbastanza attivamente di politica, non avevo idea di quali fossero realmente le difficoltà. Murad mi ha raccontato dei pullman notturni che in cambio di pagamento portano braccianti palestinesi al di là del muro per cercare un lavoro clandestino alla giornata o alla settimana. Gli ho detto che volevo seguirlo per vedere bene come funziona”.

Sono partiti alle 23 e sono arrivati alle 16 del giorno seguente. 18 ore che a Suad hanno cambiato la vita. Senza frontiera, lo stesso tragitto può essere percorso in due ore a piedi o venti minuti di macchina.

“In Europa avete la libertà di attraversare le frontiere e chiamate gli altri ‘paesi stranieri’. A parte me, su quel bus, tutti sapevano l’ebraico, sono persone che ascoltano musica israeliana, conoscono Tel Aviv e Gerusalemme. Murad è innamorato di una donna che abita dall’altra parte del muro. Sono loro il ponte, sono loro che mi hanno aperto una porta in questo muro, loro: i cosiddetti clandestini”.

Sara Rossi, la Regione