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Via Amerina di P. Rossi e di G. Cerri.doc
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NINFEO ROSA

5

Collana di studi e ricerche della biblioteca comunale

Gianluca Cerri
Paola Rossi

LA VIA AMERINA E IL SUO PAESAGGIO

Forme, colori e sensazioni di un percorso storico
e naturalistico tra Nepi, Civita Castellana e Orte
.

Edizioni Biblioteca Comunale «Enrico Minio»

Civita Castellana 1999


Organizzazione editoriale

progetto grafico

impaginazione

bozze

Alfredo Romano

In redazione

Marianna Tumeo

Sede editoriale

Biblioteca Comunale

«Enrico Minio»

Via Ulderico Midossi

01033 Civita Castellana VT

Tel. 0761 590233

Fax 0761 514180

E-mail bibliotecaminio@gmail.com 

 

ISBN 88-86903-04-9

 
Ringraziamenti

Si ringrazia Alfredo Romano che con pazienza e umiltà ha reso questi ‘appunti di viaggio' leggibili a tutti.

Si ringraziano inoltre: il prof. arch. Lidia Soprani, per l’impostazione metodologica, il geologo Antonio Mancini per la preziosa collaborazione nel capitolo ‘La Terra’, gli agronomi Franco Diana e Corrado Falcetta, il Gruppo archeologico romano per il prezioso lavoro e in particolare la dott.ssa Laura Caretta. Un grazie anche a Goffredo Biscaccianti per la gentile concessione delle stampe e cartoline originali e a Fabio Galadini che ha contribuito ad arricchire la nostra conoscenza del paesaggio sonoro.

Per i più svariati contributi: Massimiliano Cicconi, Monica Cerri, gli arch.tti Luigi Morganti e Giancarlo Angelelli e il dott. Luciano Primanni.

Un particolare ringraziamento a un gruppo di amici che per anni hanno lavorato, con coraggio e passione ideale, a far sì che questo lembo di territorio diventasse qualcosa di più di una semplice ‘passeggiata’.

 

Ai nostri genitori.

A Luca e a Monica.

A Mario, che del paesaggio

ha tutt’altra concezione.


Il paesaggio stesso dell’Italia è una sterminata opera d’arte, fatta attraverso i tempi dagli uomini a propria somiglianza; con la misura razionale della terra toscana, chiusa dai filari dei cipressi, la laboriosa grazia delle pianure del Po, la pietrosa asciuttezza degli ulivi di Liguria, la melanconica solitudine arcana delle terre interne del Sud, la contrastata drammaticità delle coste di Sicilia, e così via. Dappertutto le cose, le pietre, gli alberi, i ruscelli, le sorgenti, i boschi, hanno un nome, hanno un proprio interno iddio, e non esistono senza di esso, perché sono state fatte ed esistono con quel nome, con quel dio. Questo il maggiore tesoro dell’arte italiana, ed è dappertutto dove l’occhio possa posarsi, non disturbato e distolto da una intrusione esterna di “tecnica” o dal meccanismo convenzionale della pubblicità.”

Carlo Levi


PRESENTAZIONI

Una strada nell’antichità era un presupposto spazio-temporale per la scoperta e la valorizzazione di nuovi territori, ma anche un canale di comunicazione con altre culture.

Allo stesso modo, questo volume ripropone, dopo centinaia d’anni di oblio, un’antica strada, la Via Amerina, che già collegava i siti principali di questo territorio da Campagnano ad Amelia.

E dunque, un itinerario da ripercorrere oggi a piedi, come allora, ma con un bagaglio d’esperienza in più che ci impone maggiore rispetto per il mondo che ci circonda e a cui apparteniamo.

È doveroso esprimere un sincero ringraziamento agli autori Gianluca Cerri e Paola Rossi. Essi hanno messo a disposizione della collettività un lavoro che ha il merito di attrarre non solo gli studiosi (tale è la ricchezza di testo e di illustrazioni), ma anche quei cittadini amanti della natura che, nel corso delle belle passeggiate tra valli e forre, boschi e dirupi, potranno regalarsi una guida piacevole e al tempo stesso istruttiva.

Avv. Domenico Cancella

 

 

 

Tra le tante incombenze che una nuova Amministrazione Comunale eredita, quella della pubblicazione di un libro (di questo libro) è qualcosa che onora. Domenico Cancilla, che mi ha preceduto nell’incarico di Assessore alla Cultura, non ha dovuto spendere molte parole per convincermi della bontà di dare alle stampe La Via Amerina e il suo paesaggio di Gianluca Cerri e Paola Rossi. Si tratta di un’opera della quale ho potuto personalmente verificare la qualità dei testi, delle illustrazioni e del progetto grafico.

Alla Biblioteca Comunale il merito di contribuire a tessere, attraverso la collana Ninfeo Rosa, quel filo di memoria storica che, a causa dei continui saccheggi subiti dalla nostra città nel corso dei secoli, è andata smarrita.

Conserviamo manoscritti di personaggi illustri del passato che attendono la luce. Per questi occorrerà un lavoro di note e commenti che affideremo a studiosi del luogo. Registriamo anche un fiorire di interessi per la storia e la vita locale, il che significa ricerca e bisogno di un’identità collettiva di un paese.

Di tutto ciò non possiamo non tenerne conto. Questo volume sul paesaggio della Via Amerina è una risposta straordinaria. Altre ci attendono ancora.

 

Assessore alla Cultura

Dr. Domenico Parroccini


SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

      

PARTE PRIMA: GLI ASPETTI NATURALI

CAP. I: IL CLIMA     

- La visibilità

CAP. II: LA TERRA

                - L’evoluzione paleogeografica del territorio

                - Il mare (fine miocene-pliocene)

                - I vulcani

                - Il distretto sabatino

                - Il distretto cimino-vicano

                - I depositi piroclastici

                - La formazione delle forre

                - Il tracciato della strada e i materiali litoidi

                - Le forme degli elementi geologici

CAP. III: L’ACQUA

                - Il lago di Baccano

                - I torrenti delle forre

                - Il Tevere

CAP. IV: LA VEGETAZIONE

                - La valle di Baccano

                - Le forre

                - Il fiume

CAP. V: LE VARIAZIONI STAGIONALI

                - Il pianoro

                - Il bosco

                - La tagliata

                - La Via Amerina e la neve

PARTE SECONDA: GLI ASPETTI ANTROPICI

  CAP. VI:  IL PAESAGGIO PRIMA DI ROMA

                - La natura, il popolamento e l’agricoltura

                - La città

                - La viabilità preromana come esperienza paesaggistica

 CAP. VII: IL PAESAGGIO DELLA CONQUISTA
ROMANA

                - La rete stradale romana

                - La costruzione e l’amministrazione delle viae pubblicae

                - La Via Amerina

                - Il tracciato

                - L’attraversamento delle forre

                - Falerii Novi

CAP. VIII: IL TERRITORIO DELL’AMERINA DALLA FINE DELL’IMPERO ROMANO AL XIX SECOLO

                - La Via Amerina come frontiera tra bizantini e longobardi

                - Una strada secondaria

                - Il decadimento del paesaggio romano e le strutture paesaggistiche

   della cristianità

                - L’assetto territoriale medievale come struttura fondante del paesaggio
    attuale

CAP. IX: LA VIA AMERINA OGGI

                - Le trasformazioni del paesaggio agrario dall’800 ai nostri giorni

                - L’ultima trasformazione: l’epoca del tabacco e del nocciolo

                - Le componenti del paesaggio agrario della Via Amerina

                - Sulla strada: le categorie paesaggistiche della Via Amerina

APPENDICE: UN’ESPERIENZA DIDATTICA

                - Il paesaggio visto dai bambini

BIBLIOGRAFIA

GLOSSARIO

 

 


INTRODUZIONE

 

Negli ultimi anni, un numero crescente di persone ha avvertito la necessità di un rapporto più profondo, più diretto con il territorio nel quale vive. Questa esigenza si esplica, nel modo più immediato, con la frequentazione di luoghi particolari che vengono prescelti per le loro caratteristiche di bellezza, oppure per la presenza di elementi straordinari (formazioni naturali, emergenze archeologiche) che polarizzano l’interesse e la curiosità.

Questo fenomeno, tipico della fine del nostro secolo, ha condotto alla riscoperta di itinerari dimenticati (vie di pellegrinaggio, percorsi commerciali, piste di transumanza), attribuendo ad essi funzioni culturali, estetiche e ricreative diverse dalle originarie. Spesso si sono inventati itinerari tematici (artistici, enogastronomici, naturalistici, ecc.) con scopi esclusivamente turistici e di promozione di alcune realtà e produzioni locali.

La proliferazione di tali tragitti, più o meno attrezzati, più o meno famosi, ha provocato effetti positivi per la conoscenza e per la tutela dei luoghi, invertendo, lentamente, la tendenza a dimenticare e a escludere dal nostro quotidiano il rapporto diretto con l’intorno ambientale in cui viviamo.

In un epoca in cui le informazioni e la conoscenza sono mediate e non dirette; dove le sensazioni percettive fondamentali della vista, dell’odore e del tatto si attuano in campi confinati e ristretti di carattere prevalentemente urbano, la perdita della memoria territoriale costituisce un pericolo, perché causa una separazione tra il modello socioeconomico contemporaneo e le regole naturali di ciò che ci circonda.

La dimenticanza, in questo caso, non è mai individuale: intere collettività hanno interrotto il dialogo privilegiato con i loro ambienti circostanti. Si tratta di uno scambio che, fino ai primi anni del secolo, regolava ancora la vita degli abitanti sia per gli aspetti sociali che per quelli culturali ed economici, scandendo i tempi della vita e del lavoro, le tradizioni religiose, linguistiche e alimentari.

La crisi del binomio città-territorio ha significato, prima di tutto, la frattura culturale con l’ambiente circostante e, di conseguenza, l’indifferenza alle malattie che colpiscono le aree periurbane: inquinamento delle acque, riduzione delle superfici boscate con assenza di manutenzione forestale, modifica dei sistemi naturali di deflusso delle acque, vaste urbanizzazioni di zone agricole.

Il sistema economico attuale non consente, evidentemente, il ripristino di condizioni e comportamenti del passato. L’intento dell’uomo contemporaneo è quello di sfruttare produttivamente e funzionalmente la natura. Egli la considera un patrimonio su cui lucrare, riducendo le diversità dei luoghi a una omogeneità sopralocale attraverso la tecnologizzazione del territorio.

E allora, quel rapporto privilegiato e unico tra comunità e territorio, fondato sul processo di attribuzione ai luoghi di un valore simbolico, oltre che economico, si è definitivamente spezzato? È inevitabile un progressivo deterioramento delle strutture ambientali, visto che esse non partecipano più alla formazione mnemonica del nostro humus culturale? Per rispondere dobbiamo verificare se possediamo gli strumenti adatti a recuperare la memoria del luogo, perché non bastano i provvedimenti legislativi, gli investimenti finanziari o i processi di pianificazione, se non accompagnati da una ripresa collettiva di coscienza delle singole comunità verso il territorio. La ricomposizione del rapporto può avvenire soltanto con la conoscenza delle strutture territoriali, dei meccanismi regolatori e formativi del sito e di come l’uomo, nel tempo, abbia saputo relazionarsi a quel particolare ambiente.

L’immagine, la sintesi di questo rapporto uomo-territorio è data dal disegno e dalle forme del paesaggio. Quindi la frequentazione del territorio tramite una semplice passeggiata, se dotati di adeguati strumenti di lettura, può costituire un momento per ricomporre quel legame interrotto, per comprendere le regole e i significati dell’agire umano nell’ambiente.

È con questo intento che abbiamo scelto un percorso straordinario, dove una passeggiata può costituire un’esperienza conoscitiva di alta qualità, un cammino che permette, con la sua dimensione spazio-temporale, di possedere un osservatorio privilegiato nel paesaggio. Percorso straordinario in quanto completo, riassuntivo dei caratteri paesaggistici di quest’area geografica. Esso non viene privilegiato per maggiori valenze ambientali rispetto ad altri, non viene elevato di grado, né si accentua la sua diversità nell’intorno: ha soltanto il pregio della rappresentatività.

La Via Amerina quindi come pretesto per un itinerario della memoria che consenta il disvelarsi dei territori attraversati con i relativi paesaggi. E se la conoscenza del territorio corrisponde alla sua conservazione, la sua epifania, agli occhi di chi lo attraversa equivale alla sua ricreazione. Allora l’esistenza del paesaggio necessita di un momento al tempo stesso di apparizione e di rivelazione.

La strada ci conduce in regioni e paesaggi diversi. Quando essa si separa dalla Via Cassia e si lancia verso nord, ci presenta dapprima un’immagine tipica della Campagna Romana, leggermente ondulata, con pascoli, boschi e seminativi, tra ruderi nei roveti e ampie visuali. Successivamente ci trasporta nel paesaggio dei Colli Cimini, regolarizzato dalle piantate di vigneti, oliveti e noccioli. Più avanti, infine, nella Campagna Tiberina, segnata dal flusso continuo e lento dell’acqua che separa la terra e unisce le culture.

All’interno di queste tre grandi categorie abbiamo cercato di individuare ulteriori differenze, di scomporre i sistemi in componenti elementari: quelli naturali come il clima, la terra, l’acqua, la vegetazione e le stagioni, e quelli artificiali come la storia e l’uso del suolo, così da afferrare quei segni che determinano la riconoscibilità di un luogo rispetto ad un altro.

Quali sono questi componenti:

1.       le zone climatiche che influenzano la visibilità e la vegetazione;

2.       le forme geologiche primarie, come il cratere vulcanico, la forra, la  valle fluviale e le colline plioceniche;

3.       il manifestarsi delle componenti idriche lungo la strada, vedi sorgenti termali, torrenti e fiumi;

4.       le variazioni vegetali in relazione alle situazioni morfologiche e idriche;

5.       le trasformazione del paesaggio durante l’arco di un anno;

6.       le vicende umane, il popolamento e gli usi agricoli.

Questa scomposizione dei tanti segni riconoscibili permette di interpretare il paesaggio e di leggere in quale modo i singoli elementi sono tra loro connessi come parti di un insieme.

La lettura del paesaggio dell’Amerina è stata condotta sia sotto l’aspetto psico-percettivo che sotto quello mnemonico-culturale. Il primo si basa su strutture inconsce e primarie, fondate sulle impressioni immediate come colori, dimensioni, posizioni, forme: ad esempio le forti variazioni dello spazio visivo, quando attraversiamo un crinale o camminiamo in tagliata, ancor più in estate o in inverno, di mattina o di pomeriggio. Ma le caratteristiche percettive di un paesaggio non sono date solo dalle variazioni morfologiche o dalle quote del percorso, risiedono anche nelle differenze minime come nei sistemi agrari. Diverso è l’aspetto di un oliveto potato a globo o a vaso, come diverso appare un vigneto allevato a cordone speronato piuttosto che a tendone.

Il secondo sistema di lettura implica un passaggio cognitivo e mediato, un’ operazione di riconoscibilità che in modo necessario è diversificata e soggettiva. Esso prende in considerazione “ ... il modo di una società di territorializzare la natura, di inscrivere in essa la sua azione modificatrice…”, così da leggere, come in una grande pagina, le vicende storiche, i modi di vita, le tragedie di una comunità. Le tracce antropiche nel paesaggio ci guidano nella comprensione delle forme e delle posizioni degli insediamenti umani, sia di fondovalle che di pianoro, sia chiusi che aperti; altresì nella comprensione delle scelte agronomiche di una piantata piuttosto che di un seminativo, dei motivi della nascita o dell’abbandono di una strada.

Nel lavoro di ricostruzione del codice paesaggistico, in quanto sistema di segni e di simboli del territorio, abbiamo cercato inoltre di individuare gli elementi primari, quelli che organizzano e strutturano la sua riconoscibilità. Tra questi, ad esempio, la visione continua e differenziata del Monte Soratte, il suo profilo mutevole secondo il luogo d’osservazione e delle condizioni atmosferiche. La sua presenza costante lo trasforma in punto di riferimento territoriale (come in passato per i falisci), così come la sua verticalità emergente sull’orizzonte rappresenta ancora l’axis mundi, l’elemento di contatto tra terra e cielo, diverso per forma e materia dal territorio circostante (Fig.1).

Ulteriore elemento primario è la forra, l’arteria linfatica che conserva i principi paesaggistici dell’Agro Falisco. Si tratta di un segno vistoso, quand’anche circondato da abitazioni, che resta un elemento riassuntivo del paesaggio, matrice ambientale e insediativa che custodisce e racchiude l’immaginario collettivo degli abitanti (Fig. 2).

Per le considerazioni sopra descritte l’impostazione del lavoro non è di carattere storico-topografico. Abbiamo tralasciato volutamente l’aspetto archeologico della Via Amerina in quanto già oggetto di numerosi ed esaurienti studi e pubblicazioni.

Questo libro vuole essere un vademecum, un compagno di viaggio lungo la Via Amerina. Con la pretesa di illustrarci il perché, ogni qualvolta osserviamo il paesaggio, improvvisamente ne diveniamo parte integrante.

Gianluca Cerri

Paola Rossi


 

PARTE PRIMA

GLI ASPETTI NATURALI

Capitolo I

IL CLIMA

Tra i fattori che caratterizzano un territorio, il clima assume un’importanza fondamentale nel determinare le peculiarità di un’area geografica soprattutto da un punto di vista fitologico. Ma il clima è anche elemento condizionante dell’attività umana: delle scelte degli insediamenti e delle abitazioni, delle percorrenze territoriali, della percezione del paesaggio e anche, spesso, dell’ umore degli abitanti.

La relativa brevità del tracciato della Via Amerina, rispetto ad analisi climatiche a grande scala, può far supporre un’omogeneità di caratteristiche legate a fattori bioclimatici, ma un esame più approfondito del percorso permette invece di individuare delle specificità legate alla sua funzione di penetrazione sud nord attraverso il territorio.

I luoghi attraversati dalla strada appartengono, sostanzialmente, a un’area di transizione tra la regione a clima temperato, caratteristica della fascia preappennica e appenninica, e la regione mediterranea che si estende lungo il versante tirrenico del Lazio. Tale differenziazione è modulata in prossimità della valle del Tevere, la quale costituisce un punto di passaggio tra la regione temperata e quella mediterranea. Inoltre tutta l’area si avvale delle correnti umide e mitigatrici provenienti dal Mar Tirreno.

La Carta del Fitoclima del Lazio (Tav. 1), in base a dati provenienti da stazioni termopluviometriche e pluviometriche, permette di suddividere il territorio dell’Amerina in tre regioni climatiche e in successive unità fitoclimatiche, con ulteriori specificazioni di termotipo e ombrotipo.

Si individuano:


I Tratto compreso tra la valle di Baccano e Corchiano:

1.          REGIONE MEDITERRANEA DI TRANSIZIONE

2.          TERMOTIPO MESOMEDITERRANEO MEDIO

3.          OMBROTIPO SUBUMIDO SUPERIORE/UMIDO INFERIORE.

           Precipitazioni abbondanti: da 822 a 1110 mm

           Precipitazioni estive: da 84 a 127 mm

           Temperatura media annua piuttosto elevata: da 13.7 a 15.2 °C

           Temperatura media mensile: <10°C per 3-4 mesi

           Temperatura media minima del mese più freddo: da 3.4 a 4 °C

           Aridità non elevata nei mesi estivi

           Freddo poco intenso da novembre ad aprile.

II Tratto da Corchiano al fosso di Aliano e Tratto da Poggio Pelato (comune di Vasanello) a Seripola sul Tevere:

1.          REGIONE TEMPERATA DI TRANSIZIONE

2.          TERMOTIPO COLLINARE INFERIORE/SUPERIORE

3.          OMBROTIPO UMIDO INFERIORE.

           Precipitazioni annuali medio alte: da 954 a 1116 mm

           Precipitazioni estive: da 103 a 163 mm

           Temperatura media annua: 14.2°C

           Temperatura media mensile: <10°C per 4 mesi

           Temperatura media minima del mese più freddo: <°C

           Aridità non pronunciata a luglio e agosto

           Freddo intenso da ottobre a maggio.

III Tratto tra il fosso di Aliano e Poggio Pelato:

1.          REGIONE TEMPERATA

2.          TERMOTIPO COLLINARE INFERIORE/SUPERIORE

3.          OMBROTIPO SUBUMIDO SUPERIORE/UMIDO INFERIORE.

           Precipitazioni annuali variabili e abbondanti: tra 775 a 1214 mm

           Precipitazioni estive: da 112 a 152 mm

           Temperatura media annua: da 12.4 a 13.8°C

           Temperatura media mensile: <10°C per 4-5 mesi

           Temperatura media minima del mese più freddo: da 1.2 a 2.9°C

           Aridità estiva debole a luglio, agosto e sporadicamente a giugno

           Freddo prolungato da ottobre a maggio.

L’analisi del fitoclima mette in evidenza, oltre alle caratteristiche climatiche, la relazione tra queste e la vegetazione. Vediamolo per ogni singolo Tratto.

1. Cerrete con o senza roverella, castagneti, leccete e lembi di boschi misti mesofili, soprattutto nelle forre. Nel settore della regione sabatina, più prossima al lago di Bracciano, vale a dire anche nell’area della valle di Baccano, esiste una variante mesofila con prevalenza di faggete e boschi di carpino bianco e nocciolo. Si deve comunque rilevare che le condizioni climatiche all’interno delle forre sono notevolmente diverse da quelle generali dell’area circostante. Questo a causa della minore insolazione e della notevole umidità proveniente dai corsi d’acqua.

2.Querceti a cerro e roverella con elementi di flora mediterranea, vegetazione a salici, pioppi e ontani.

3. Vegetazione prevalente di cerrete, querceti misti (cerro, rovere, roverella, farnetto) e castagneti.

Appare allora evidente come questa variazione degli ambiti climatici, e perciò delle specie forestali prevalenti, costituisca la prima interessante particolarità del tracciato della Via Amerina.

Tali differenziazioni vegetali, qui trattate in grandi linee, racchiudono delle ulteriori particolarità legate alla morfologia del territorio (forre, pianori, valle fluviale, collina) e alla natura del terreno (vulcanico, alluvionale, calcareo), che saranno approfondite più avanti.

La visibilità

Un ulteriore effetto climatico che condiziona più che mai la percezione del paesaggio, è dato dalla visibilità del territorio intesa come trasparenza atmosferica, o meglio capacità di osservare e percepire più o meno nitidamente i riferimenti territoriali e i limiti visivi.

Per un’analisi della percezione, se da una parte la vegetazione muta fisionomia con il paesaggio secondo i cicli stagionali (che sono verificabili, ripetitivi e di relativa lunga durata), dall’ altra, la trasparenza atmosferica varia in modo quotidiano, non ripetitivo e con repentina velocità (max 24 ore).

La visibilità è condizionata dalla presenza quasi costante di foschia, che è più o meno densa in relazione alle condizioni di temperatura, di umidità relativa e di turbolenza dell’aria.

La presenza di foschia è dovuta principalmente: 1. all’ abbondanza di acqua e relativa umidità in fondo alle valli fluviali; 2. a un’importante escursione termica tra la temperatura dell’aria di giorno e il suo raffreddamento notturno, raffreddamento che genera condensazione delle particelle acquose non spazzate via dal vento.

È proprio la presenza delle numerose forre e della valle del Tevere a creare la condizione di foschia sopra descritta. La forra, con le sue pareti inclinate, intrappola le radiazioni solari, contribuendo così ad accrescere la temperatura e, conseguentemente, ad aumentare il quantitativo di vapore acqueo presente nell’aria. Inoltre, l’abbondanza di vegetazione e la traspirazione delle piante tendono ad accrescere l’umidità all’interno delle valli (Fig. 1).

Durante le ore notturne e nel primo mattino, a causa della maggiore concentrazione di aria fredda sul fondo della forra, si crea spesso una stratificazione della temperatura dal basso verso l’alto, provocando la condensazione del vapore acqueo in sospensione nell’atmosfera. (Fig. 2). Bisogna aggiungere che la permanenza di tale condizione di foschia dipende non soltanto dall’assenza di vento, ma anche dal fatto che le radiazioni dirette alla terra non riescono a raggiungere il suolo e così vengono assorbite dall’atmosfera. Quindi più l’aria contiene gocce e pulviscolo, più aumenta l’assorbimento.

Tale condizione climatica influisce in modo determinante sulla percezione dei confini in relazione alla profondità dell’orizzonte. La visibilità del territorio varia, a seconda delle situazioni, da poco meno di uno a dieci chilometri circa, e ciò ha un nesso con la direzione del vento.

I dati della direzione del vento provenienti dalla stazione agrometereologica di Torrita Tiberina, per gli anni 1992-‘94, evidenziano come durante l’anno predominano i venti provenienti da nord. Nei mesi più freddi, da ottobre a marzo, si ha un’incidenza superiore al 50% con punte fino al 77% (riscontrate nel dicembre del ‘94). Nei mesi più caldi invece, da aprile a settembre, esiste una predominanza di venti provenienti da sud e sud ovest, con una incidenza media del 43%.

I dati confermano ciò che è visibile a un osservatore attento: in inverno l’eventuale formazione di foschia viene investita da una predominanza di vento proveniente da nord, vento che contribuisce alla riduzione della concentrazione di vapore acqueo presente nell’atmosfera e al suo trasporto; nei mesi più caldi invece, la forte presenza di umidità dell’aria viene aumentata dallo spirare di venti caldi provenienti da sud e sud ovest.

Queste condizioni climatiche influiscono in modo particolare sull’osservazione: i riferimenti territoriali subiscono delle dissolvenze talmente marcate, tanto da trarre in inganno sulla situazione morfologica dell’area. Nei periodi in cui l’atmosfera è al massimo grado di limpidezza, si percepiscono in modo chiaro i limiti dell’ invaso visivo. Questi sono costituiti dai monti Cimini, dai Sabatini, dai monti di Amelia e dai rilievi Reatini (compreso il Terminillo) che delimitano i contorni della pianura vulcanica attraversata dalla Via Amerina. Tali condizioni di visibilità avvicinano gli elementi e consentono una messa a fuoco che ne esalta i colori e le forme.

Nei mesi più caldi, con maggiore presenza di pulviscolo nell’ atmosfera, i margini risultano velati più o meno intensamente, tanto da non permettere, a volte, la percezione dei riferimenti più vicini come il Monte Soratte. Il paesaggio appare sfuocato e con predominanti di tinte grigie (Fig. 3).

Questa condizione di varietà genera spesso sensazioni di sorpresa tanto maggiori quanto rare sono le giornate di perfetta trasparenza atmosferica (Fig. 4).


Capitolo II

LA TERRA Alla definizione di luogo concorrono varie componenti naturali, che, in base alla loro forma, posizione topografica e colore, determinano le strutture fondamentali del paesaggio. Tali strutture, a seconda dell’estensione e della distanza dall’osservatore, costituiscono il carattere del paesaggio.

Fra le tre componenti fondamentali del luogo (rilievo, vegetazione, acqua), il rilievo (vale a dire la forma del territorio), è quello che maggiormente contribuisce a definire lo spazio, sia fisico che visivo, con le sue proprietà geometriche di altezza, profondità ed estensione. Il rilievo inoltre delimita lo spazio percettivo tramite i confini visivi, che, di norma, sono rappresentati dalle differenze morfologiche.

 

L’evoluzione paleogeografica
del territorio

Per una completa conoscenza delle attuali condizioni geologiche del territorio attraversato dalla Via Amerina, è necessario fare un rapido excursus sul suo processo di formazione.

La struttura morfologica primaria è costituita da una fascia depressa (Graben principale), parallela alla linea tirrenica e compresa tra il settore più elevato della catena appenninica e le coste del Mar Tirreno. All’interno di questa depressione vi è un’ulteriore area ribassata, la valle del Tevere (Graben del Tevere), separata da un alto strutturale sedimentario (Horst) di cui il Monte Soratte è l’emergenza più vistosa.

Il mare (fine miocene  -  pliocene)

Nel Plio - Pleistocene, il Mar Tirreno occupava il Graben principale dando origine a sequenze deposizionali marine di natura argillosa e sabbioso conglomeratica.

Durante la massima fase ingressiva (Pliocene inferiore: sei milioni di anni fa), la linea di riva del Mar Tirreno era ubicata a ridosso dei Monti Sabini, circa 70 km più a est dell’attuale linea

di costa. In questo bacino marino emergevano, come isole, i rilievi di Monte Razzano, Monte Canino, Monte Ferento, il Monte Soratte e i Monti della Tolfa (Fig. 1).

Nel corso degli ultimi due milioni di anni, la regione conobbe ripetute trasgressioni marine che modellarono la costa tirrenica fino alle sue forme attuali. I depositi sedimentatisi nel Pliocene inferiore sono essenzialmente argillosi e sabbiosi; essi confermano la presenza del mare lungo tutto il tratto della valle del Tevere sino a Città della Pieve (Perugia).

Nel Pliocene medio e superiore, i sollevamenti della crosta terrestre avvennero a causa del vulcanesimo tolfetano – cerite -manziate (4 - 2 milioni di anni fa) e del Monte Cimino (1.4 - 0.9 milioni di anni fa).

 

I vulcani (pleistocene)

A partire dalla fine del Pliocene, in quella fascia depressa compresa tra le propaggini dell’Appennino e l’attuale zona costiera del Tirreno, si sviluppò un’intensa attività vulcanica che interessò da nord a sud l’area di Orvieto fino alla pianura Pontina (Fig. 2).

Tale vulcanismo originò una serie di distretti vulcanici a prevalente attività esplosiva: distretto vulsino, distretto cimino - vicano, distretto sabatino e tolfetano e, più a sud, il distretto dei colli Albani e delle isole Ponziane.

L’azione vulcanica, con fenomeni di sollevamento dei magmi, ridusse il bacino marino a un’estensione poco più ampia di quanto non sia oggi. Fu soltanto alla fine del Pleistocene superiore che l’innalzamento di un’ampia fascia di depositi marini fece regredire la linea di costa sino alla situazione attuale.

La Via Amerina nel suo corso attraversa i distretti vulcanici sabatino e cimino - vicano.

 

Il distretto sabatino

Iniziò la sua attività di natura esplosiva più di 600 mila anni fa, verso est, a ridosso del Monte Soratte, dove si ergeva rapidamente il primo edificio vulcanico detto di Morlupo - Castelnuovo, che oggi non è più riconoscibile perché coperto dai prodotti più recenti. Contemporaneamente, a ovest, era presente l’attività dell’ edificio di Sacrofano rimasto attivo sino a 370 mila anni fa. Le colate piroclastiche di tale edificio modellarono fortemente la morfologia, rendendo pianeggiante l’area per una distanza di 30-40 km dal centro eruttivo. Verso i 400 mila anni fa, il centro di Sacrofano ebbe una fase di attività parossistica con emissione di prodotti di ricaduta ed effusioni laviche secondarie. In questo periodo l’ingente eruzione di materiali portò allo svuotamento delle camere magmatiche con il conseguente collasso della conca del lago di Bracciano e lo sprofondamento, per più di 200 metri, dell’ alto strutturale di Baccano - Cesano. Questa fase fu conclusa da intensi episodi esplosivi di natura idromagmatica.

In seguito, 370 mila anni fa, il vulcano si avviò al suo stadio finale di attività. Alla fine di violenti episodi idromagmatici, avvenne il collasso della parte superiore dell’edificio con la formazione di un’ampia caldera. Estinto il vulcano di Sacrofano l’ attività proseguì verso est con caratteristiche idromagmatiche: sorsero i coni di Monte Razzano, di Monte Sant’Angelo, il centro di Baccano (la cui attività terminò 40 mila anni fa) e successivamente Martignano, Stracciacappa e le Cese

 

 

Il distretto cimino - vicano

Il secondo distretto incontrato dalla Via Amerina è, verso nord, quello cimino - vicano. Il complesso cimino è il più antico del Lazio (1.35 - 0.8 milioni di anni fa). Durante questo periodo si ebbe la formazione di domi accompagnata da attività esplosiva. Attualmente si conoscono più di 50 rilievi collinari, ognuno dei quali dovuto all’accumulo di lave e connessi all’eruzione di peperino.

Circa 800 mila anni fa, all’estinzione dell’attività cimina, iniziò quella del distretto vicano che terminò 90 mila anni fa. L’ attività si sviluppò da un edificio principale centrale, il vulcano di Vico, dalla tipica morfologia di stratovulcano. La forma attuale si definì in un arco di tempo compreso tra 400 e 90 mila anni fa, con un’attività non continua, ma interrotta da lunghi periodi di quiete (60 - 100 mila anni).

L’attività iniziale fu di tipo prevalentemente esplosivo con eruzioni pliniane. Dopo un periodo di calma vi fu una fase di natura essenzialmente effusiva che andò a creare l’edificio centrale. Una seconda fase esplosiva, anch’essa di tipo pliniano, causò la formazione della caldera vicana, con la messa in posto delle principali formazioni piroclastiche, tra cui il tufo rosso a scorie nere. Il tufo rosso si estese per un raggio di circa 25 km, e precisamente: 1. a nord est e a est fino alla valle del Tevere; 2. a nord ovest fino alle vulcaniti del distretto vulsino; 3. a sud e a sud ovest fino a riempire le paleovalli incise nei depositi del distretto sabatino. Alla fine di questo periodo si verificò il collasso della parte terminale dell’edificio.

Nell’ultima fase, tuttavia (140 - 90 mila anni fa), cambiarono radicalmente le condizioni eruttive. Risultando queste condizionate dalla presenza del bacino lacustre, all’interno della caldera vicana, avvenne un’eruzione violenta di tipo idromagmatico. L’attività si chiuse con l’edificazione del cono lavico di Monte Venere all’interno della caldera

Con i depositi vulcanici dei distretti sabatino e cimino - vicano, la situazione geologica del territorio in questione cominiciò a definirsi. Gli spessi strati di materiale lavico furono successivamente erosi dai numerosi torrenti provenienti dai bacini lacustri di origine vulcanica, sino a presentare la situazione morfologica attuale.

I depositi piroclastici

Come abbiamo visto, le fasi eruttive sopra descritte non sono di un solo tipo, ma spesso si susseguono con caratteristiche diverse. Tali differenze sono fondamentali per comprendere da un punto di vista morfologico la formazione del paesaggio nelle sue strutture primarie.

I depositi piroclastici sono dovuti all’accumulo dei materiali eruttati da un vulcano nel corso della sua attività e si possono dividere in tre categorie: piroclastiti di ricaduta, piroclastiti di colata, piroclastiti idromagmatiche.

Piroclastiti di ricaduta

Sono dovuti dall’accumulo di frammenti esplosi da un cratere e proiettati verso l’alto attraverso una colonna sostenuta da gas. La forma del deposito è dovuta a quattro fattori: la traiettoria dei frammenti, l’altezza della colonna eruttiva, la direzione e velocità del vento, la granulometria dei materiali.

In base a questi fattori si possono distinguere i tipi di eruzione: hawaiana, stromboliana, pliniana, ecc., che si differenziano per

l’altezza della colonna eruttiva, l’esplosività e la superficie di dispersione.

La caratteristica fondamentale di questo tipo di piroclastiti, ai fini della formazione del paesaggio, è la modalità di messa in posto. Le piroclastiti di ricaduta ammantano la topografia, mantenendo invariato lo spessore del deposito in corrispondenza di valli e di alture. In questo territorio sono tipici i depositi di pomici che si collocano alla base delle colate piroclastiche di tufo rosso a scorie nere.

Piroclastiti di colata

I depositi delle colate piroclastiche sono il prodotto di un flusso turbolento gas/solido ad alta concentrazione di particelle. Tale flusso può originarsi per cause differenti connesse con i domi (tipi di accumuli lavici di forma circolare e di piccola estensione presenti, ad esempio, sul Vulcano Cimino), oppure con il collasso di una nuvola eruttiva.

Questi depositi, se connessi ad eruzioni di grande volume, costituiscono i plateau che livellano completamente la morfologia preesistente, colmando parzialmente o totalmente le valli. Essi mostrano vistose variazioni di spessore, che è minimo nei rilievi e massimo nelle paleovalli. Questo perché le colate si muovono prevalentemente all’interno delle depressioni topografiche. Nella zona, le colate piroclastiche maggiori e più interessanti sono rappresentate dal tufo rosso a scorie nere.

Piroclastiti idromagmatiche

Costituiscono il deposito di un flusso gas/solido, turbolento ed espanso a bassa concentrazione di particelle. Si verificano quando il magma ha un’interazione con acqua esterna.

Il deposito tende ad ammantare la topografia, ma con un aumento di spessore in corrispondenza delle depressioni che difficilmente riesce a colmare definitivamente.

La formazione delle forre

L’elemento paesaggistico dominante, lungo il tracciato della Via Amerina, è rappresentato dalle forre, particolari conformazioni morfologiche del territorio compreso tra il Fiume Tevere e la caldera di Baccano. Si tratta di una situazione geomorfologica che è stata alle origini e ha condizionato sia le scelte insediative, sia i tracciati viari organizzati dalle popolazioni che su questo territorio si sono succedute.

La forra è il risultato soprattutto di una combinazione di elementi geologici e idrici che hanno determinato la creazione di un territorio dalle caratteristiche uniche e singolari.

In seguito alle eruzioni vulcaniche, lungo le paleovalli di origine marina e lacustro - fluviale, composte da depositi pliocenici come argille, ghiaie e sabbie (Fig. 10a), si sovrapposero spesse masse di materiali. Queste furono deposte ancora prima da eruzioni piroclastiche di ricaduta (pomici) e poi da piroclastiti di colata (tufo rosso a scorie nere) (Fig. 10b). Tali colate produssero un livellamento delle superfici con banchi alti anche 100 metri. Su questo sottofondo di facile erodibilità, le acque fluviali col tempo hanno modellato delle profonde valli con forme nette, tanto da raggiungere in alcuni casi (valle del Treia, valle fosso dell’Isola) lo strato pliocenico sottostante sul quale depositano continuamente il materiale eroso (Figg. 10c - 10d).

Il sistema è in continua evoluzione in quanto il materiale depositato sul fondovalle spesso causa degli spostamenti laterali dell’ alveo fluviale che sono la causa dell’erosione della parte basale, più friabile, con il conseguente crollo, sia per ribaltamento che per scivolamento, di notevoli parti di materiale vulcanico che ha una scarsa resistenza a trazione.

 

Il tracciato della strada e i materiali litoidi

La Via Amerina percorre nella zona sud un territorio formatosi dal deposito delle vulcaniti dei distretti sabatino e cimino – vicano. Verso nord, attraversando la valle del Tevere, formata da depositi alluvionali, risale invece verso le colline plioceniche di origine marina per introdursi infine, attraverso i rilievi calcarei, nella zona di Amelia.

La percezione di tali differenze è abbastanza netta soprattutto per le variazioni morfologiche del territorio, ma anche per i diversi materiali incontrati che con le loro caratteristiche di colore, tessitura e forma, circoscrivono i vari paesaggi e permettono la riconoscibilità del luoghi.

Le forme morbide e avvolgenti, plasmate dalla caldera di Baccano a sud, subiscono delle trasformazioni procedendo verso nord. Questo avviene lungo l’ampio plateau, appena mosso dagli avvallamenti del fosso dello Stramazzo e di Valle Coaro, dove prevale il colore grigio dei tufi stratificati e delle lave leucitiche. È nei pressi di Casale l’Umiltà e più avanti, sul fosso del Cerreto, che si percepisce un brusco cambiamento, quando la strada attraversa il passaggio tra i prodotti del Vulcano Sabatino con quelli del Vulcano Vicano. Qui il colore predominante è il rosso, con le sfumature cineree dei licheni o le tonalità verdi dei muschi sulle pareti esposte a nord delle forre. Il paesaggio assume dei caratteri più aspri con il plateau tufaceo inciso profondamente dalle valli fluviali. Lo si percorre sino a poco oltre Falerii Novi, dove la deposizione del ‘tufo bianco di Fabrica’ ci accompagna, in un tratto prevalentemente pianeggiante, sino alla Madonna del Soccorso, quando il tufo rosso e le forre ristabiliscono una sequenza di profonde depressioni ed estesi pianori.

Tale condizione di omogeneità viene interrotta nei pressi di Vasanello, dove inizia l’attraversamento della grande depressione costituita dalla valle del Tevere. La trasformazione avviene progressivamente dopo aver superato dapprima la valle del Rio Paranza, delimitata a sud dall’ultima propaggine del plateau vulcanico, e a nord da formazioni continentali di travertini. Quest’ ultime circondano delle isole di tufo rosso oltre le quali si apre l’ampia Valle Tiberina, al cui centro sorge il tamburo tufaceo di Orte e, oltre il fiume, l’analogo rilievo di Seripola.

Qui la sensazione di cambiamento è netta, la discesa avviene attraverso le formazioni argillose e sabbiose di origine marina e, in seguito, per i depositi fluviali intercalati dai travertini formati dall’incessante lavoro del Tevere.

Il paesaggio assume un aspetto grandioso, la percezione delle grandi trasformazioni geologiche è data chiaramente dall’ imponente fronte del plateau vulcanico che, con un dislivello di circa 100 metri, costituisce una netta barriera sia fisica che visiva tra il territorio sabino e quello viterbese. Oltre, verso nord, la strada, subito dopo aver attraversato il Tevere, si incunea nella stretta sella delimitata dallo sperone di travertino di Castiglioni e dall’ultimo residuo tufaceo di Seripola, per risalire, lungo il Rio Grande, le bianche colline plioceniche coperte di sempreverdi. Approda, infine, verso l’estrema propaggine appenninica costituita dai rilievi calcarei, sui quali si adagia la città di Amelia.

In quest’ultimo tratto, percorso lungo il crinale delimitato a destra dal Fosso Sasso e a sinistra dal Rio Grande, gli scorci panoramici si susseguono con una serie di quinte definite dalle creste dei rilievi appenninici: prima più morbidi, poi netti e massicci.

Le forme degli elementi geologici

Se ci si limita a considerazioni di tipo paleogeografico e litologico, l’analisi delle caratteristiche geologiche del territorio non si completa e non rende comprensibili appieno le differenze che esse determinano sugli aspetti percettivi del paesaggio. La peculiarità e la riconoscibilità di un territorio, così come la sua genesi o le caratteristiche del modellamento delle strutture, sono strettamente in connessione con le forme che gli elementi geologici assumono sia per cause intrinseche, che a seguito di azioni di agenti esterni.

In alcuni casi, come per i rilievi vulcanici e calcarei, le loro forme segnalano dei punti di riferimento territoriali visibili a grande distanza, punti che assumono il valore di segni unici, non ripetibili, che emergono da un substrato composto da elementi seriali e ripetitivi come la sequenza forra - pianoro o la sequenza delle colline plioceniche. Elementi minori quest’ultimi capaci di dare uniformità e continuità al paesaggio grazie a un diverso e più ravvicinato livello di visibilità. La forra manifesta la sua presenza all’osservatore soltanto a pochi metri da essa, quando ci si avvicina al ciglio del pianoro; a lunga distanza invece, il territorio si mostra pianeggiante e uniforme, creando una sorta di illusione ottica.

Esistono forme codificate e selezionate tra le più rappresentative di questo paesaggio. Nei riferimenti territoriali sono significative quelle ‘morbide’ degli apparati vulcanici dei cimini e dei sabatini e le più ‘dure’ dei rilievi calcarei del Monte Soratte e dei monti sabini con creste più acuminate. I tratti meno evidenti sono costituiti dalle pareti delle forre e dalle testate dei crinali per l’ area vulcanica e dalle colline tiberine per le forme di origine pliocenica.


Capitolo III

L’ACQUA

L’acqua è la matrice delle forre, è l’elemento attraverso il quale si è formato il territorio della Via Amerina. L’acqua è anche elemento paesaggistico primario, con capacità di delimitazione della terra e di caratterizzazione dei luoghi. Essa si manifesta in vari modi: ampio specchio lacustre, linea torrentizia irregolare, linea fluviale regolare e ampia, caduta improvvisa a seguito di un dislivello nel formare una cascata. La sua presenza determina il movimento del paesaggio e lo stato d’animo dell’osservatore: lago / immobilità / quiete; fiume / lentezza / calma; torrente / velocità / vivacità.

L’azione dell’acqua trasforma e plasma le rocce, modificando il territorio lentamente ma con costanza. Lungo il corso dell’ Amerina l’acqua, soprattutto quella in superficie, si presenta in tre forme primarie che determinano altrettanti paesaggi: il lago, il torrente e il fiume.

Le formazioni lacustri delle caldere dei vulcani di Vico e Sabatino costituiscono i bacini di alimentazione del territorio. Da esse si dipartono, in modo radiale rispetto alle caldere, numerosi corsi d’acqua che hanno un andamento dendritico e a volte subparallelo convergente verso il flusso del Fiume Treia. Per i corsi d’acqua più settentrionali, invece, affluenti diretti del Tevere, il pattern è di tipo parallelo (Fig. 1). Tale modello viene riscontrato anche nella falda basale, con andamento radiale della superficie piezometrica a partire dagli edifici vulcanici sopracitati.

La linea di spartiacque tra i monti Cimini e Sabatini determina inoltre il verso di scorrimento idrico sotterraneo in direzione della valle del Tevere: su questa linea si presentano numerose sorgenti allineate (Carbognano – Caprarola e Capranica) alimentate dalle acque immagazzinate nelle rocce serbatoio di natura vulcanica.

Le aree vulcaniche creano dei rapporti litostratigrafici fra i diversi tipi di terreno e di roccia, favorendo spesso la mineralizzazione di gran parte delle acque circolanti nel sottosuolo. Le linee preferenziali di distribuzione delle sorgenti d’acqua mineralizzate fredde e termominerali sono collegate a varie discontinuità tettoniche, le quali, a loro volta, costituiscono vie privilegiate di emersione secondo due direzioni principali di nord ovest e sud est.

Il tracciato della Via Amerina attraversa alcune aree dove le manifestazioni di acquiferi minerali sono testimoniate sia dalla letteratura scientifica che da fonti storiche.

Le acque minerali più a meridione emergono nel territorio di Nepi in prossimità di Casale l’Umiltà. Qui la coesistenza sia di sorgenti fredde che termominerali ha offerto già in epoca romana la possibilità di uno sfruttamento con le cosiddette Terme dei Gracchi. Nella stessa area sono state individuate altre sorgenti di acque mineralizzate fredde. Due di queste hanno caratteristiche solfidrico bicarbonate, la terza, in località Cascinone, è di tipo ferruginoso. Un’altra sorgente di acqua termominerale solfidrica è presente lungo il fosso del Cerreto, acqua che presenta una temperatura costante di 20°C.

Più a nord, nei pressi di Falerii Novi, lungo il corso del Rio Purgatorio, è da segnalare una sorgente di tipo ferruginoso che sgorga da numerose piccole manifestazioni sorgive, lasciando un deposito giallo arancio. È conosciuta sotto il nome di Acqua Forte o Acqua di Santa Maria di Falleri.

Fig. 1.


Un’area di consistente presenza di sorgenti termominerali viene toccata dalla Via Amerina poco prima di attraversare il Fiume Tevere, a nord di Orte, dove attualmente è presente uno stabilimento termale. Qui esistono varie sorgenti solfuree con una temperatura costante di 30°C., che attualmente alimentano una piscina. Tali sorgenti erano conosciute nell’antichità per i benèfici effetti sulle malattie della pelle, tanto da essere denominate Fonte dei Rognosi o anche Acqua dei Rognosi.

Le ultime acque termominerali vengono intercettate dalla strada ancora più a nord, dopo l’attraversamento del Tevere, lungo il Rio Grande, in un’area denominata La Solfatara. Si presenta nei caratteristici ribollimenti causati da gas e depositi fangosi nerastri. Tra tutte quelle descritte, quest’area, dal punto di vista paesaggistico, è la più suggestiva, sia per la presenza di numerose polle d’acqua, che per l’emissione di gas che determinano delle concrezioni grigio biancastre.

Sotto l’aspetto della circolazione idrica, in relazione alla situazione litologica, il territorio di cui parliamo si presenta omogeneo, con caratteristiche di bassa permeabilità, ma molto fessurato. Sono fessurazioni risultanti avere una circolazione alta, in quanto costituiscono dei dreni preferenziali del flusso idrico. Sui pianori il ruscellamento è abbastanza limitato e interessa soprattutto le zone limitrofe alle forre. Situazione questa che si riscontrava anche nel periodo preromano e che causava problemi alle attività agricole. A causa di ciò le popolazioni falische misero in atto dei complessi sistemi di drenaggio dei pianori, e lo fecero tramite pozzi e cunicoli comunicanti. Riuscirono così a evitare situazioni di allagamento e a convogliare le acque meteoriche verso le valli sottostanti.

Nella parte est, il Fiume Treia, con i suoi affluenti diretti, costituisce il corpo idrico principale di drenaggio verso il Tevere. Le gole del Treia, poiché sono erose dall’acqua, hanno un fondovalle costituito da argille, sabbie e ghiaie cementate. Le rocce hanno una permeabilità variabile: da media ad alta. Le falde idriche si trovano a debole profondità dal piano di campagna, tanto che spesso è la falda di base che alimenta direttamente il corso d’acqua. Tale situazione litologica si presenta anche all’interno dell’ormai prosciugato lago di Baccano.

Il lago di Baccano

Il primo elemento morfologico legato all’acqua che si individua a sud, nel punto in cui la Via Amerina si diparte dalla Cassia, è il cratere della valle di Baccano.

La formazione della caldera di Baccano è strettamente connessa con l’attività vulcanica del complesso denominato appunto Sacrofano - Baccano.

Una volta cessate le attività eruttive, la presenza di una falda idrica a debole profondità rispetto al piano di campagna, ha dato vita, più che a un vero e proprio lago, a un acquitrino posizionato verso le quote più basse. L’antica Via Cassia aggirava a est questo fondo lacustre a una quota di 20 metri.

Il prosciugamento del lago è stato tentato fin dall’antichità, ma soltanto con i Chigi, nel 1838, si effettuarono interventi consistenti realizzando un canale artificiale chiamato Fosso Maestoso, detto anche Fosso Maestro. La definitiva bonifica si ebbe soltanto negli anni venti di questo secolo. Ciò permise di sfruttare al meglio un terreno risultato poi molto fertile. Nella parte centrale del cratere, sono ancora visibili i canali di raccolta dove le acque vengono convogliate verso il Fosso Maestro.

Lo specchio lacustre era riportato in numerose mappe e cartografie. Vi sorgeva accanto un piccolo borgo, probabilmente sul luogo ove oggi insiste l’edificio della Stazione di Posta nel cinquecentesco Casale Chigi.

Il rapporto di questo luogo con l’acqua è ormai rilevabile soltanto dalla presenza sul fondo di materiali di deposito come argilla scura, dovuta al riempimento della conca palustre. Al centro della valle, nella parte più profonda e umida, come a testimoniare un’antica presenza, sorgono ancora esemplari di pioppi e salici.

I torrenti delle forre

Appena superato il margine del cratere di Baccano, il tracciato della Via Amerina inizia l’attraversamento di un territorio che con l’acqua ha un rapporto fondamentale e strutturante.

Il binomio forra - torrente costituisce l’essenza del territorio falisco. La Via Amerina, che lo percorre in perpendicolare, ce ne permette una percezione piena.

Per comprendere come l’acqua plasma la forma di questa parte del territorio, dobbiamo descrivere il modello di erosione che innesca dei movimenti franosi per crollo e/o ribaltamento dei blocchi.

L’azione di erosione da parte dei corsi d’acqua sulla formazione argillosa sottostante comporta sforzi di trazione nei materiali tufacei superiori. Tali tensioni, non tollerate dal materiale, portano alla sua fratturazione e successivo crollo per scivolamento o ribaltamento. Tutto ciò viene agevolato dall’infiltrazione delle acque, dagli apparati radicali delle piante e dalla presenza di cavità antropiche all’interno del banco tufaceo.

È evidente come il sistema forra - torrente sia aperto e in continuo movimento, il che porta a modifiche relativamente repentine nel paesaggio e nella forma del territorio.

La Via Amerina attraversa i torrenti e le relative valli in punti che possiamo definire costanti, sia per profondità della forra che per dimensione dell’alveo. Questo può essere largo da uno fino a quattro metri e avere un livello medio di magra di circa mezzo metro. La profondità e l’ampiezza delle forre invece aumentano procedendo verso nord. I profili fluviali mantengono forme dure, non ammorbidite dal rapporto tra erosione e depositi detritici. Ciò contribuisce a dare un aspetto nervoso e giovanile alle valli fluviali tufacee.

Bisogna inoltre considerare come la variazione di livello dell’acqua durante l’anno è abbastanza consistente e molto sensibile alle variazioni meteorologiche. Questo è uno dei motivi che ha portato gli antichi costruttori romani a privilegiare l’uso di ponti piuttosto alti rispetto al normale livello dell’acqua.

Per finire, il colore e la limpidezza dell’acqua di superficie dipendono dalle precipitazioni e dalla presenza sul fondo di particelle polverulente derivanti dall’erosione del tufo. L’acqua presenta generalmente un aspetto perennemente velato e a tratti torbido, un colore tendente all’ambrato che si scurisce in caso di piogge prolungate e che si accentua nelle valli più profonde a causa della scarsità di luce diretta.

 

Il Tevere

È nella parte nord, nei pressi di Orte, che la Via Amerina incontra il corso del Fiume Tevere.

Il Tevere rappresenta la principale via d’acqua del Lazio, nonché il più importante corpo ricettore delle acque provenienti sia dall’area vulcanica che da quella appenninica.

Sul versante destro, gli affluenti sono più numerosi e ben distribuiti lungo il corso del fiume. Hanno una portata marginale, ad eccezione del Treia, che è l’immissario di maggior rilievo. Essi raccolgono le acque provenienti dai bacini lacustri dei distretti vulcanici dei monti Vulsini, Cimini e Sabatini. La sponda destra è caratterizzata inoltre dall’alta terrazza costituita dal banco lavico. Essa è solcata dai torrenti che scorrono all’interno di valli profonde.

Sul versante sinistro invece il Tevere raccoglie le acque provenienti dall’Appennino, quasi esclusivamente dal Fiume Nera, il suo maggiore affluente. Nel Nera, a sua volta, si versano le acque che hanno origine dai monti Reatini (Velino), dai Sabini orientali (Salto) e dal Cicolano (Turano). Ciò fa sì che, subito a valle della confluenza con il Nera, il Tevere mostra dei cambiamenti consistenti nelle portate. Queste passano da 70 a 160 mc/sec e in periodo di magra da 10 a 80-90 mc/sec. La consistente variazione di portata del fiume, appena a valle di Orte, deve aver indotto quindi i costruttori romani a una scelta del percorso di scavalcamento del fiume non solo legata ad opportunità politiche, ma anche fortemente condizionata da fattori ambientali.


Capitolo IV

LA VEGETAZIONE

La vegetazione naturale è una componente che caratterizza fortemente il paesaggio dell’Amerina. Essa si manifesta in brani all’interno di un tessuto antropizzato costituito da tutto il tracciato stradale.

La vegetazione spontanea partecipa al disegno del territorio e sottolinea le depressioni morfologiche interrompendo la trama dei campi coltivati. La sua presenza storica è strettamente legata alla vicende umane: nei secoli il bosco scompare e riappare, si ritira e poi si riappropria delle sue sedi naturali, ciò in rapporto alle diverse organizzazioni sociali ed economiche delle comunità umane che si sono succedute nel territorio. Per questo la natura è stata sempre considerata in funzione delle attività umane. La produzione di materie prime infatti, o la messa a coltura di terreni, riducono il bosco; l’alimentazione del bestiame invece lo conserva, mentre l’abbandono dell’agricoltura lo incrementa.

Fu nel secolo XVIII che vennero ad accentuarsi gli studi sugli aspetti biologici e fisici del bosco, al fine di approfondire la sua composizione e le sue funzioni protettive sul terreno.

Oggi sappiamo che l’aspetto paesaggistico degli ambienti naturali va interpretato in un contesto climatico, morfologico e umano. Questo significa comprendere i meccanismi della loro creazione e ri-creazione: il bosco non muta mai se stesso quando si riforma, a meno che non sia l’uomo a volerlo.

Cessando la sua funzione economico sociale, il bosco ha perso lo scambio simbiotico con l’uomo, il quale, spesso lo ha ricreato in forme e modi non conformi alla sua natura, abusando largamente ad esempio nell’introduzione di specie vegetali esotiche. Sono operazioni queste condotte più volte in modo superficiale e che hanno avuto l’effetto di rendere estranei alcuni tratti di paesaggio, dimenticando che sono proprio le specie vegetali a caratterizzare un territorio attraverso le loro forme, le loro fioriture, i colori, i profumi.

Il territorio attraversato dalla Via Amerina offre interessanti spunti paesaggistici legati alla varietà vegetazionale che si incontra. La presenza o meno delle varie specie è legata alla morfologia territoriale e alla caratteristica climatica che, nell’arco di pochi chilometri, si modifica notevolmente. Per facilità di esposizione abbiamo chiamato macro ambienti gli àmbiti territoriali che presentano differenze fitoclimatiche, e ambienti tipo i luoghi con rilevanti diversità vegetazionali che si incontrano all’interno dello stesso macro ambiente.

Lungo il percorso si hanno quattro diversi macro ambienti: il lago con la caldera asciutta di Baccano; le forre vulcaniche; il Fiume Tevere e le colline plioceniche dell’Umbria.

La valle di Baccano

La valle di Baccano ha conosciuto da secoli l’opera dell’ uomo. Due gli esempi storici per tutti: 1. la conquista del territorio veiente da parte dei romani che occuparono tutta la valle intorno al lago, con una politica agricola estensiva; 2. il prosciugamento del lago nel XIX secolo ad opera dei Chigi, ai fini di un più cospicuo sfruttamento agricolo.

Per tale motivo, la valle dell’antico lago di Baccano non presenta oggi alcuna peculiarità dal punto di vista della vegetazione; attualmente anzi, sul lato est della Cassia, è vittima di una politica di urbanizzazione tanto disordinata quanto degradante per la qualità dell’ambiente naturale. Qui ormai sono solo quelle ornamentali le specie dominanti, e si trovano in prossimità degli insediamenti edilizi. Sul lato ovest, invece, il paesaggio è segnato dalle trame degli appezzamenti agricoli. Sulle pendici del Monte Sant’Angelo in particolare, si distinguono le coltivazioni di noccioli.

L’unica traccia di paesaggio naturale è data dal Fosso Maestro, che peraltro è segnato dalle canalizzazioni del drenaggio realizzate per prosciugare il lago. Su questo fosso insistono salici bianchi e pioppi bianchi e neri che danno vita a una serpentina di vegetazione.

La valle di Baccano rappresenta, a dire il vero, un breve tratto della Via Amerina che, superato il bordo del cratere, si addentra quasi subito all’interno del sistema delle forre vulcaniche.

Le forre

La Via Amerina oltrepassa trasversalmente gli affluenti del Treia e del Tevere. Questi caratterizzano il territorio di questa parte dell’Agro Falisco mediante la particolare morfologia delle forre, con alti gradi di naturalità. Ci troviamo infatti all’interno di “… morfologie pseudo - pianeggiantispesso interessate da profonde incisioni che, oltre ad essere elementi peculiari del paesaggio naturale, ospitano una flora ed una vegetazione di grande interesse fitogeografico”.

L’Amerina è un asse di attraversamento delle forre in senso perpendicolare alla loro direzionalità. Tale condizione di percorrenza della strada permette di incontrare quattro ambienti tipo vegetali: il bosco di pianoro, la fascia di separazione tra la forra e il pianoro, il bosco interno alla forra e la fascia ripariale vera e propria (Fig. 8).

I boschi dei pianori

Il pianoro è un’area pianeggiante o a debole inclinazione verso nord sud. Si tratta di aree da secoli sfruttate dall’uomo per l’ agricoltura e per il taglio dei boschi.

Il pianoro tufaceo si trova a una altimetria limitata (100 - 200 metri sul livello del mare), ma, camminandovi sopra, soprattutto nei giorni di foschia all’orizzonte, si ha la netta sensazione di essere su un altopiano e guardare verso il basso. Sono aree per lo più utilizzate come fondi agricoli e solo alcuni tratti mantengono la destinazione originaria a bosco. Alcuni pianori, infatti, ospitano boschi cedui del tipo a querceto misto; nello strato boschivo domina la roverella (Quercus pubescens) (Fig.1) con la presenza di cerro (Quercus cerris). Qui le varietà vegetazionali sono abbastanza limitate a causa soprattutto dello sfruttamento da parte dell’uomo. Oltre alle già citate essenze vi si trovano acero campestre (Acer campestre) (Fig. 2) e orniello (Fraxinus ornus).

Lo strato arbustivo è “… formato da specie tipiche dei mantelli dei querceti caducifogli”. La varietà del mantello arbustivo dei boschi di pianoro è formata dalle specie di corniolo (Cornus mas), prugnolo (Prunus spinosa), ligustro (Ligustrum vulgare), biancospino (Crataegus monogyna), berretta da prete (Evonymus europaeus) e rosa canina (Rosa canina).

Gli arbusti rappresentano la maggiore attrazione paesaggistica per chi passeggia lungo i boschi dell’Amerina. Ciò avviene soprattutto con le fioriture in primavera, e in autunno con i colori delle bacche e le mutazioni cromatiche delle foglie.

Lo strato erbaceo invece varia a seconda delle caratteristiche del terreno. Se questo presenta rocce affioranti con bosco rado è facile imbattersi nella presenza di caprifoglio (Lonicera etrusca), asparago (Asparagus acutifolius) e robbia (Rubia peregrina). Sono specie che si ritrovano anche nella fascia rupicola e, spesso, anche ai bordi delle strade, sul finire del bosco. Se il bosco è fitto ed è del tipo misto a cerro, si trova erba perla azzurra (Buglossoides purpurocaerulea). È il ciclamino in ogni modo il fiore più diffuso (Cyclamen repandum) (Fig. 3).

La vegetazione rupicola

È la presenza dapprima sporadica e poi costante di specie sempreverdi peculiari della macchia mediterranea, che ci avverte della fine del pianoro e dell’inizio della forra. Tali specie occupano la fascia poco estesa del bordo della forra, con caratteristiche macchie d’arbusti che hanno una notevole riconoscibilità paesaggistica, dovuta al colore predominante del verde scuro dei lecci (Quercus ilex). A questi si accompagna spesso l’orniello (Fraxinus ornus) e l’acero minore (Acer monspessulanum), al quale si deve l’esplosione di giallo oro durante l’autunno e la riconoscibilità delle macchie purpuree durante la primavera. Lo strato arbustivo è formato spesso da erica (Erica arborea), alaterno (Rhamnus alaternus), corbezzolo (Arbutus unedo) (Fig. 5) e ginestra (Spartium junceum), cisto a fiori bianchi (Cistus salvifolius) e cisto a fiori rosa (Cistus incanus) (Fig. 4).

La macchia mediterranea delle rupi è tipica anche delle tagliate artificiali entro cui passa la Via Amerina. È come se l’intervento umano, volto a modificare un elemento morfologico, abbia permesso alla vegetazione rupicola di incunearsi all’interno del pianoro. La percorrenza della tagliata ci consente così di camminare per decine di metri in una galleria di sempreverdi e di poter osservare le fioriture primaverili di eriche, cisti e ginestre (Fig. 6).

Questi tratti di macchia mediterranea sono anche caratterizzati dalla scarsa presenza dello strato erbaceo, con l’eccezione dell’ asparago e della robbia.

I boschi della forra

In prossimità del limite del pianoro il terreno inizia a scendere bruscamente e si entra nella forra vera e propria. La Via Amerina superava simili depressioni con dei ponti, alcuni dei quali, ancora intatti, restano visibili. Laddove il ponte è crollato, lo si aggira con un percorso alternativo che ci consente di osservare meglio il particolare ambiente vegetale. Dopo aver incontrato specie mediterranee proprie di quote basse, sui bordi della forra e lungo le sue pareti, si ripropone invece una vegetazione di tipo mesofilo che è insolita per queste quote e la cui presenza è dovuta alla scarsa insolazione e alla notevole umidità. Non è raro, per fare un esempio, imbattersi in qualche esemplare di castagno a quote così basse. Sono boschi caratterizzati da una esuberante naturalità resa possibile dalla difficoltà di accesso da parte dell’uomo.

Questi boschi presentano tra di loro anche notevoli differenze, dovute soprattutto alla diversità di pendio tra una forra e l’altra. Sulle pareti di raccordo delle forre, con pendenza superiore ai 40° e 50°, si impostano cerrete cedue con dominanza nello strato arboreo di nocciolo (Corylus avellana) e acero (Acer campestre); nello strato arbustivo si trovano invece corniolo e rovo (Rubus ulmifolius) (Fig. 8-9); sono inoltre presenti specie che hanno portamento rampicante e lianoso come l’edera (Hedera helix) e la vitalba (Clematis vitalba).

Lo strato erbaceo è composto da una grande varietà di specie quali la mercorella (Mercurialis perennis), il ranuncolo (Ranunculus lanuginosus), ma anche le felci a più diretto contatto con l’acqua, come la felce maschio (Dryopteris filix mas).

L’altro tipo di bosco si sviluppa alla base delle pareti della forra, poco prima dell’alveo vero e proprio del fiume. Si tratta di boschi con notevole predominanza di carpino bianco (Carpinus betulus) e nocciolo (Corylus avellana) nello strato arboreo (Figg. 7 - 10). Per quanto riguarda arbusti e strato erbaceo, le specie sono quelle tipiche del bosco mesofilo già descritto in precedenza.

La vegetazione ripariale

È molto difficile, per chi attraversa l’Agro Falisco percorrendo la Via Amerina, imbattersi in tratti vallivi che abbiano zone di esondazione anche brevi, al di fuori dell’alveo vero e proprio. Questo perché la maggior parte dei torrenti, attraversati dalla strada, hanno un deflusso rapido e scorrono all’interno di ripide forre. La presenza di vegetazione ripariale propriamente detta si trova soltanto per brevi tratti, ed è ridotta a due filari di alberi lungo il fosso che assumono la forma di una galleria avvolgente. Spesso questa galleria di alberi è limitata dall’attività agricola dell’uomo che sfrutta il terreno fin sotto il letto del fiume, oppure dalla presenza del bosco di fondovalle. In quest’ultimo caso la vegetazione ripariale si trova in compresenza di specie proprie del bosco di pendio, quali carpino bianco e nocciolo.

Ma è l’ontano (Alnus glutinosa) la specie dominante tra quelle ripariali, talora in presenza esclusiva, a volte accompagnato dal pioppo nero (Populus nigra), dal salice bianco (Salix alba) e dall’ olmo (Ulmus minor).

Molto interessante dal punto di vista paesaggistico è la notevole varietà, lungo i torrenti delle forre, di specie igrofile la cui crescita abbondante è dovuta alla costante umidità e alla scarsa insolazione. Sono presenti, infatti, associazioni di felci (Fig. 11) che comprendono specie come la felce maschio (Dryopteris filix mas), la lingua cervina (Phyllitis scolopendrium), il capelvenere (Adiantum capillus veneris), la ruta di muro (Asplenum ruta muraria), l’equiseto (Equisetum arvense) e l’ombelico di Venere (Umbilicus rupestris) (Fig. 12).

 

il fiume

La presenza del grande fiume si avverte nel momento in cui s’interrompe il saliscendi prodotto dalle forre e dai pianori. Si entra allora in un territorio più ampio, allargato dal vicinissimo Tevere, con la visione prospiciente di colline poco lontane. Si produce subito un’impressione radicalmente diversa da quella avvertita sul pianoro, anche se la quota del terreno non varia di molto; è la chiara sensazione di trovarsi nella valle, in un territorio ampio, ma chiuso al suo interno dai suoi stessi margini: colline e monti pressappoco lontani che qui si avvertono molto più vicini di quanto non lo siano. La vegetazione non è prorompente e neanche prossima come nelle forre, ma è lontana, si trova sulle colline che circondano la valle ed è stata fortemente trasformata dalla mano dell’uomo. Non produce per questo lo stesso fascino su chi vi passeggia intorno, almeno fino a quando non si arriva ai margini del Tevere.

La naturalità della vegetazione, in questi ambienti tipo, è quasi del tutto persa. Non è raro, infatti, incontrare specie domestiche in ambienti naturali, quali ad esempio il salice capitozzato (Salix fragilis) oramai coltivato intorno ai giardini e nelle vigne (Fig. 13). Tutto questo è dovuto alla forte antropizzazione avvenuta attraverso strutture insediative alquanto disordinate che hanno avuto notevoli ricadute sull’ambiente: vedi l’inquinamento del fiume e la nudità di tratti dei suoi margini letteralmente rosicchiati dalle coltivazioni, vedi il paesaggio che ha perso le sue caratteristiche di foresta planiziale.

Fig. 10. Forre con boschi a predominanza di Carpinus betulus (schema).


Questa foresta igrofila, che ricopriva un tempo tutta la pianura alluvionale ed era ricca di varietà vegetali quali farnie, frassini, olmi, carpini, ontani, salici e pioppi, fu gradualmente distrutta dalle pratiche agricole e dagli insediamenti umani. Tale esistenza è oggi testimoniata dalla presenza sia di qualche bell’esemplare d’albero che giganteggia in mezzo a un campo o lungo il fiume, sia, in collina, di notevoli siepi che sono il rifugio di una ricca flora spontanea. Dal punto di vista della classificazione, questo macro ambiente si può suddividere nei seguenti ambienti tipo: il bosco di collina, il bosco alveale e ripariale, il bosco di palude, i canneti.

Il bosco di collina.

La vista delle specie che ricoprono le colline intorno al passaggio della Via Amerina è lontana e poco scenografica. Si tratta di boschi di caducifoglie termofile (simili a quelli dei pianori) a predominanza di roverella e cerro e comparsa sporadica d’acero

campestre, carpino bianco, carpino nero (Ostrya carpinifolia) e olmo (Ulmus minor), predominante quest’ultimo nella piana di Orte.

La scenografia delle colline della valle del Tevere è particolarmente interessante nella stagione primaverile, quando, in mezzo al verde lontano della vegetazione, spuntano i fiori rosa dell’ albero di Giuda (Cercis siliquastrum) in discreta presenza nel bosco collinare.

Le siepi delle colline della pianura del Tevere sono simili a quelle dei pianori delle forre, ma con l’ulteriore presenza del salice capitozzato, dell’olmo nella foggia di arbusto e della sanguinella (Cornus sanguinea). Quest’ultima rivela la sua presenza in autunno quando le sue foglie diventano rosso vermiglio. Per il resto è presente il biancospino, il prugnolo e soprattutto la rosa canina.

Il bosco alveale e ripariale.

Il bosco alveale è quello più vicino al fiume, poco prima del bosco ripariale vero e proprio che invece insiste sull’argine. Esso ha la peculiarità di essere allagato in alcuni periodi dell’anno dalle piene del Tevere.

Per il notevole fenomeno d’antropizzazione, la presenza di questo lembo di bosco prima del fiume è di solito ridotta a una striscia lungo l’alveo del Tevere con un portamento poco più che cespuglioso.

Le specie più comuni che compongono il bosco alveale sono le diverse varietà di salice come il salice rosso (Salix purpurea), il salice delle capre (Salix caprea) e il salice ripaiolo (Salix eleagnos). Questi, man mano che ci si avvicina al fiume, convivono con pioppi bianchi (Populus alba), pioppi neri (Populus nigra) e salici bianchi (Salix alba) che, lungo le sponde del Tevere (bosco ripariale), raggiungono anche notevoli dimensioni (Fig. 14).

La diversa predominanza del pioppo bianco o, altrimenti, di quello nero, determina il colore della riva del fiume. Questo può assumere un uniforme color argento dato dal salice e dalle foglie del pioppo bianco che, con il vento, ondeggiano, mettendo in mostra il loro colore argento vivo; oppure la riva può assumere un colore a macchie alternate tra il verde intenso del pioppo nero e l’argento del salice.

Il bosco di palude e i canneti

Sono ambienti propri di zone dove il terreno rimane allagato molti mesi durante l’anno.

Il bosco di palude è caratterizzato da specie che resistono molto bene con radici e tronchi alla presenza dell’acqua. In questi boschi le più comuni sono il salice bianco, ma soprattutto l’ ontano (Alnus glutinosa), il cui legno, a contatto costante con l’acqua, diventa durissimo e resistente.

Data la forte antropizzazione che ha subito la piana di Orte, non è facile imbattersi in boschi di paludi e canneti che necessitano, per la loro sopravvivenza, di forti naturalità e di acque stagnanti. Paludi e canneti solitamente indicano anche la presenza di varie specie di uccelli che, come è noto, amano i luoghi poco frequentati.

Nel tratto del Fiume Tevere attraversato dalla Via Amerina, non si segnalano canneti simili a quelli che si trovano invece all’interno della Riserva naturale Tevere Farfa o della Riserva naturale del lago di Vico. È in ogni modo possibile incontrarli lungo il corso del Tevere, per cui è opportuno dare dei cenni sulla loro composizione.

Tra le piante dei canneti la più frequente è la cannuccia di palude (Phragmites australis), accompagnata dai cosiddetti cappellini (Agrostis stolonifera) e dalla cannella spundicola (Calamagrostis pseudophragmites). Spesso si scambia il canneto con un tifeto. Nel tifeto, molto simile nella forma e nel colore al canneto, prolifera non la canna, ma due tipi di tifa (Typha latifolia e Typha angustifolia), famose per le loro infiorescenze a forma di manicotto color marrone, utilizzate per le composizioni di fiori secchi. (Fig. 15).

 


Capitolo V

LE VARIAZIONI STAGIONALI

La lettura paesaggistica di un territorio comporta, oltre a un’ interpretazione culturale e storica dei suoi elementi, anche un’ analisi percettiva dell’insieme e delle parti che lo compongono.

Ciò che noi vediamo ci appare dapprima sotto forma di quantità, poi, dopo una serie d’operazioni di distinzione e ricomposizione, riusciamo finalmente a impartire un ordine alle cose viste.

La prima percezione di un paesaggio dipende dalla superficie che lo delinea (linea retta, superficie aperta, superficie conchiusa) e dai colori che lo compongono. I colori in particolare ci trasmettono diverse sensazioni, prime tra tutte quelle di caldo o di freddo che condizionano poi le nostre emozioni: gli stati di quiete, ansia, tensione, stabilità, precarietà, ecc. che noi proviamo di fronte a paesaggi diversi tra loro. “L’occhio non vede nessuna forma, in quanto sono solo chiaro, scuro e colore a stabilire insieme ciò che distingue un oggetto dall’altro e le parti di un oggetto dalle altre”.

Alla luce di queste premesse, un paesaggio non appare mai uguale a se stesso ogniqualvolta lo si osserva. La Via Amerina, inoltre, presenta già di per sé accentuate differenze di carattere morfologico lungo il suo percorso. L’attraversamento in perpendicolare delle forre produce infatti una successione di saliscendi tale da mutare la nostra percezione anche in maniera drastica: dal pianoro coltivato (superficie aperta) passiamo all’interno di un bosco (superficie chiusa che tende, a volte, al punto), per trovarci, poi, lungo una tagliata (superficie rettilinea).

Insieme con tali diversità di conformazione del territorio, anche le mutazioni stagionali trasformano a loro volta il paesaggio, spesso irriconoscibile. Le nostre sensazioni, la possibilità di visualizzare più o meno quantità dello stesso oggetto, oppure il moto inconscio di soffermarci di fronte a un elemento del paesaggio, tutto ciò è molto legato alle variazioni stagionali.

Abbiamo cercato nel corso di un anno di testimoniare le relazioni che esistono tra la diversità morfologica del paesaggio della Via Amerina, le mutazioni stagionali e il trasformarsi delle nostre sensazioni. Abbiamo individuato tre ambienti tipo: il pianoro, il bosco e la tagliata. Ne abbiamo documentato le trasformazioni.

Il pianoro

Il pianoro ci mostra il suo mutamento stagionale tramite gli stadi attraversati dalla vegetazione spontanea e dalle coltivazioni. In breve, tramite le variazioni di colore e le tessiture del territorio.

Il pianoro in inverno

Per mesi, dall’autunno inoltrato all’inverno, il paesaggio del pianoro trasmette una sensazione di uniformità. Ogni suo elemento, infatti, anche il cielo a volte, assume un colore verde di varie tonalità: basta guardare i campi che di solito sono lasciati a pascolo per diversi mesi. Il tutto è delimitato dal colore grigio marrone degli alberi spogli e delle siepi.

L’impressione è di abbracciare visualmente uno spazio senza soluzione di continuità. Lo sguardo non ha punti di riferimento e vaga in cerca di uno stimolo che trova nell’unica emergenza del territorio che è il Monte Soratte, quando anch’esso non è nascosto dietro la foschia.

La sensazione che si prova su di un pianoro nel periodo invernale è quella di calma, una calma dovuta all’ampiezza della visione e ai colori riposanti che ci circondano. Il nostro stato di quiete è interrotto soltanto dalla curiosità che porta il sguardo verso il confine costituito dal bosco di forra (Fig. 1).

Il pianoro in primavera

Nei mesi primaverili ed estivi, ma anche all’inizio dell’ autunno, ogni passeggiata lungo i pianori della Via Amerina può offrirci delle sorprese che stimolano il nostro sguardo.

In primavera i campi coltivati presentano una gamma notevole di colori: essi vanno dal verde chiaro dei seminativi (grano, orzo, avena, ecc.) al giallo della colza e al rosso cupo dei fiori dell’erba medica. Le siepi che bordano i campi, con una fioritura che permane per tutti i mesi primaverili, sono le più appariscenti: in febbraio e marzo hanno i colori bianchi del pruno e gialli dei cornioli, insieme al verde chiaro delle prime foglie; in primavera inoltrata s’infiorano del biancospino, del ligustro, della rosa canina e di altre specie, in un tripudio di verde della restante vegetazione. Un infinità di elementi colpiscono la vista e mettono in moto la nostra curiosità facendoci addentrare nei particolari.

Il pianoro in estate

In estate il pianoro assume fondamentalmente due colori: il verde brillante della vegetazione e il giallo oro dei campi per lo più coltivati a seminativo. Il paesaggio, più che in ogni altra stagione, presenta un tale contrasto di colori, che ci trasmette una sensazione di tensione visiva (Fig. 2).

Il pianoro in autunno

Nei mesi di fine estate e inizio dell’autunno, in un gioco di rosa, di rosso e di viola, s’affacciano nelle siepi le prime bacche nel mezzo di foglie che s’apprestano a ingiallire. I campi mutano nuovamente colore e passano dal giallo ocra delle stoppie al colore rosso tufo del maggese. Il paesaggio del pianoro si prepara a colori simili tra loro in tonalità, riconducendoci a sensazioni di quiete e di pace (Fig. 3). Oltrepassata Falerii Novi, il paesaggio del seminativo lascia il posto al paesaggio della piantata.

Le piantate più frequenti sono noccioli, viti e olivi. Esse hanno la stessa variazione cromatica stagionale del bosco, ma, per minore altezza, ci permettono un campo visuale di alberi, di orizzonte e di cielo che il bosco invece di solito ci occlude.

L’odore del pianoro

L’odore costituisce un elemento invisibile del paesaggio, ma anche essenziale nella caratterizzazione dei luoghi. Gli odori del pianoro sono maggiormente percepiti in due periodi dell’anno: in primavera, con l’esplosione dei cosiddetti fiori di campo e di quelli delle siepi, che danno una sensazione di delicata freschezza; in estate durante la fienagione. L’odore del fieno si divide in due momenti: 1. odore di erba appena tagliata che si sprigiona immediatamente dopo la falciatura; 2. un odore più elaborato e complesso dato dall’essiccazione di alcune piante presenti nel fieno. Queste contengono delle molecole odorose di cumarina, come il paleo minore (Anthoxanthun ovatum), il più fragrante tra gli elementi del fieno, ma anche l’alisso, i meliloti (altissima e officinalis) e il trifoglio (Trifolium incarnatum).

Il bosco

Quando ci s’inoltra in un bosco, secondo la stagione, la vegetazione, più o meno fitta, ci può nascondere (o rivelare) particolari diversi di uno stesso paesaggio.

I fattori che determinano le differenze stagionali sono gli stessi già descritti per il pianoro. Nel bosco predomina la variazione cromatica della vegetazione associata a un’altra variabile che è la quantità dello spazio visibile; il paesaggio inoltre viene modificato dal fattore spaziale, tanto che l’effetto emozionale che ci viene trasmesso cambia nettamente (a differenza del pianoro) a seconda se noi lo percorriamo in estate o in inverno.

Il bosco in inverno

In inverno la visione nel bosco si allunga fino a farci vedere chiaramente la strada davanti a noi. Il paesaggio presenta essenzialmente due colori: quello marrone grigio della vegetazione spoglia e quello chiaro del cielo, colori perfettamente distinti tra loro, a differenza del paesaggio di pianoro.

La sensazione è di quiete, ed è dovuta al colore caldo e uniforme della vegetazione, come alla possibilità di controllo che possiede il nostro sguardo oltre la barriera trasparente degli alberi (Fig. 4).

Il bosco in primavera e in estate

In primavera inoltrata, ma soprattutto in estate, il bosco riacquista la sua caratteristica di barriera visiva. Predomina il colore verde con una tonalità così intensa che, a contrasto con la temperatura esterna, ci trasmette una sensazione di refrigerio.

Ciò che cambia notevolmente è la quantità di spazio visibile, certamente limitata, che produce delle reazioni emozionali diverse, secondo i soggetti che vi camminano all’interno. Lo sguardo è limitato in ogni parte dalla vegetazione, situazione questa che desterà una sensazione di curiosità in alcuni soggetti, spronandoli alla ricerca di novità nel paesaggio; per altri un bosco in estate può divenire quanto di più misterioso e abissale possa esistere e la sensazione di curiosità potrebbe trasformarsi in sospetto e timore (Fig. 5).

Il bosco in autunno

In autunno la passeggiata nel bosco è ricca di emozioni. La vegetazione si mostra attraverso una miriade di colori di tonalità calda (il giallo acceso degli aceri e dei carpini, il ruggine delle querce, il rosso e il viola delle bacche). È l’unica stagione in cui la temperatura esterna è perfettamente uguale alla nostra temperatura interna. Il contrasto è quello proprio dei colori caldi: “… il rosso arancio o rosso di Saturnio è il colore più caldo… Il giallo, giallo arancio, arancio, rosso arancio, rosso e rosso viola si definiscono comunemente caldi…” e, d’altra parte, il clima dei nostri autunni è comunemente mite. Lo sguardo, in questa situazione emozionale di perfetto equilibrio è dinamico, a differenza dell’estate, è pronto a cogliere il paesaggio nei suoi particolari più nascosti (Fig. 6).

L’odore del bosco

Il bosco si contraddistingue anche per il caratteristico odore dove gli aromi dei singoli elementi si compongono in un’armonia capace di intense sensazioni. Ciò avviene soprattutto nel periodo autunnale e primaverile, perché d’inverno con il freddo e nelle estati asciutte gli odori diminuiscono d’intensità.

Fig. 8. La tagliata in estrate.

L’elemento che produce i profumi è il sottobosco di caducifoglie, quando l’humus si compone di foglie morte, di funghi, di legno e di muschio. In primavera invece è dominante l’odore dei fiori di ligustro.

La tagliata

La tagliata, ai fini di una sua descrizione attraverso le stagioni, si può assimilare a un sentiero nel bosco percorso durante la stagione estiva. La ricca presenza di specie della macchia mediterranea ai bordi delle tagliate, come lecci, eriche, corbezzoli e ginestre, rende la vegetazione in gran parte sempreverde. Ci troviamo, anche per la quantità di spazio visibile, nella stessa situazione di un bosco d’estate dove, però, ad avvolgere lo sguardo non è solo la vegetazione, ma anche le pareti della tagliata forate dai varchi delle tombe che producono sensazioni di abisso e mistero. Ciò che varia notevolmente nel corso delle stagioni è l’effetto che la luce dà al percorso: in autunno e in inverno questo è nitido e chiaro, e permette, data la scarsa presenza di ombra, una visione più approfondita delle preesistenze archeologiche; in estate l’ ombreggiatura rende la visione più confusa e distratta, situazione questa che distoglie l’attenzione.

Lungo la tagliata le stagioni influiscono sui giochi chiaroscurali producendo i diversi livelli di interesse dei vari elementi: in autunno e in inverno le preesistenze archeologiche appaiono in primo piano; in estate vi appare invece la vegetazione (Figg. 7 - 9).

L’odore della tagliata

Caratteristica della tagliata tufacea è di avere le pareti esposte al sole dove, come per la rupe, vengono a svilupparsi le piante mediterranee. Tra queste alcune hanno un forte elemento aromatico che si sprigiona nel momento in cui vengono calpestate o stropicciate. L’aromaticità della tagliata è data dal timo, dall’origano, dalla mentuccia e dal potente odore di liquirizia del selfino selvatico (Helichrysum stoechas).

la Via Amerina e la neve

La neve non è un fenomeno consueto del territorio dell’ Amerina, tuttavia, a causa della sua estraneità, è quello che produce maggiori sorprese. Le immagini qui riprodotte (Figg. 10 - 11) sono state riprese nell’inverno del 1996, dopo un’eccezionale nevicata. Si è preferito inserirle senza alcun commento.

Un paesaggio può offrirci delle sorprese impensabili e trasformare uno stato attenzionale di quiete in uno di aperta tensione: “… qualche volta una scossa straordinaria è in grado di strapparci da uno stato di morte a un sentire vivo… L’occhio aperto e l’orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi esperienze”.

 


PARTE SECONDA

GLI ASPETTI ANTROPICI

 

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Capitolo VI

IL PAESAGGIO PRIMA DI ROMA

Il paesaggio non è soltanto l’insieme di luoghi formati dalla composizione di parti come il rilievo, la vegetazione e l’acqua, che insieme ne costituiscono gli elementi base, ma è soprattutto la testimonianza della presenza umana sul territorio.

Quindi i luoghi contengono i segni che l’attività antropica ha impresso sulla natura: tutto il lavoro di modellazione, di trasformazione e di appropriazione effettuato dall’uomo per adattarla ai propri bisogni.

L’opera di modifica millenaria, condotta dalle popolazioni che hanno percorso e abitato questa terra, ha avuto bisogno però di una presa di coscienza dell’ambiente e, successivamente, di una forma di rappresentazione visiva e materiale della cognizione di natura intesa come precisazione dei luoghi.

Fino al momento in cui il luogo non viene codificato, non avviene un’elaborazione dell’ambiente atta a costituire una trasformazione del paesaggio naturale che conduca alla definizione di territorio. E per territorio intendiamo uno spazio all’interno del quale si esplicano i fattori fisici e umani con una loro peculiarità.

Il primo operare dell’uomo in uno spazio fisico è quello di riconoscere l’ambiente circostante. Il ripetersi poi di gesti primordiali, come il ritrovare i sentieri, le sorgenti, i luoghi di caccia e i ripari in grotta, andranno man mano a far parte della sua memoria storica. Grazie a questa i gesti diverranno un fatto meccanico e, una volta affrancatosi dai gesti, potrà volgere l’attenzione all’orientamento territoriale, legato peraltro ai miti delle origini, potrà appropriarsi dell’ambiente che diverrà territorio e soggetto, potrà consolidare i riti e le consuetudini, come apportare modifiche al suo paesaggio.

La natura, il popolamento e l’agricoltura

L’area compresa tra lo spartiacque costituito dai Monti Cimini-Sabatini e la grande ansa del Tevere, nel Pleistocene inferiore era profondamente diversa dall’attuale, come abbiamo visto nel capitolo II. La definitiva fase di modellazione del territorio per opera dei vulcani era appena iniziata.

Durante la lunga era del Quaternario si sono avuti periodi alterni di clima freddo (glaciale) e di clima mite (interglaciale) con temperature anche più calde di quelle attuali (postglaciale). Tali variazioni climatiche, associate alle trasformazioni geologiche, hanno condizionato profondamente le caratteristiche naturali della flora e della fauna.

I rinvenimenti di resti fossili annunciati sin dal secolo scorso in alcune zone prossime alla valle del Tevere, ma anche all’interno della città di Roma, hanno permesso la ricostruzione paleoclimatica e ambientale della regione. I resti più antichi indicano, per le caratteristiche della fauna, l’esistenza di un ambiente paleoartico ricco di acque, con la presenza di elefanti (Elephas meridionalis), ippopotami (Hippopotamus major), il rinoceronte etrusco (Dicerhorinus etruscus), cavalli e cervidi.

Le modifiche climatiche, avvenute nel corso del Pleistocene medio, provocarono un innalzamento della temperatura, col risultato di una variazione anche delle specie faunistiche. Variazione che avvenne in due fasi: la prima, con clima mite, fu caratterizzata dalla presenza di foreste e bacini lacustri abitati da un elevato numero di elefanti (Elephas antiquus e Elephas trogontheri), di cervi giganti e ippopotami; la seconda, dapprima con clima temperato-caldo (60 mila anni fa) e successivamente freddo, verso il Pleistocene superiore, si diversificò per un paesaggio di bacini lacustri dalle acque profonde e di boschi di caducifoglie con estese radure. Qui, insieme con elefanti e rinoceronti (Dicerhorinus hemitoechus), convivevano cervi, daini, cani, volpi, leoni, cavalli e bovidi (Bos primigenius), come testimonia un giacimento fossile presso Riano Flaminio.

Fu in questa fase, con la cessazione dell’attività vulcanica, che il territorio trovò un proprio equilibrio da un punto di vista geologico. L’abbondanza di selvaggina fu sicuramente sfruttata dai primi abitatori: da quelli insediatisi lungo la costa tirrenica soprattutto, ma anche da quelli con sporadici siti lungo il corso del Tevere.

Il raffreddamento del clima in Italia centrale, intorno a 40 mila anni fa, se da una parte preservò la vita di forme animali come il Mammuthus primigenius, il rinoceronte (Coelodonta antiquitatis) e gli stambecchi, dall’altra fece estinguere animali legati alla foresta, o comunque ad ambienti a clima caldo: vedi l’elefante antico e l’ippopotamo. La copertura boschiva inoltre si diradò, a tal punto che le aree aperte si ridussero a delle steppe aride e fredde.

Gli animali in cerca di cibo iniziarono migrazioni stagionali lungo percorsi vallivi che dalla pianura tiberina e tirrenica risalivano verso gli altipiani appenninici. Il nomadismo divenne la risposta dell’uomo alle mutate condizioni ambientali, approntando una serie di basi, lungo i percorsi migratori, che erano delle vere e proprie stazioni di caccia costituite da ripari in grotta.

L’aumento progressivo della temperatura, intorno ai 12 - 15 mila anni fa, portò alla trasformazione del paesaggio: la prateria si coprì di terreni boscati con specie decidue come querce e noccioli, la vegetazione prese ad assumere un aspetto del tutto simile a quello odierno.

Con la fine del Tardiglaciale, anche la fauna selvatica cambiò fisionomia, diventando simile a quella attuale. Alcune specie, d’altronde, sia a causa di leggere modifiche climatiche, sia per la successiva e massiccia azione antropica, modificarono il loro areàle di diffusione o si estinsero addirittura.

Nelle zone umide dei laghi, degli stagni e delle paludi, trovarono un habitat ottimale varie specie di uccelli come l’oca grigia, l’oca lombardella minore, trampolieri (gru, cicogne, aironi, fenicotteri, cavalieri d’Italia), rapaci come il falco di palude e il falco pescatore, mammiferi come la lontra, il castoro e il topolino delle risaie.

Nella foresta igrofila con roveri, frassini e olmi potevano nidificare il germano reale e il picchio, e abbondavano cinghiali, cervi e caprioli.

Nelle foreste più fitte e più interne vivevano il gatto selvatico (Felis sylvestris) e la lince (Lynx lynx); in quelle ad alta quota, oltre al cinghiale e al cervo, erano frequenti i tassi, le martore, le faine, le volpi, i lupi e l’orso bruno (Ursus arctos).

Nel Neolitico medio le tracce archeologiche confermano la presenza di insediamenti umani lungo la costa Tirrenica e lungo le valli fluviali che hanno uno sbocco diretto sulla costa, come la valle del Fiora e quella del Mignone. Tracce di insediamenti sul Tevere sono invece rare.

Fu una fase questa dove l’economia dei nuclei tribali si manifestò molto differenziata da località a località. Accanto a gruppi che praticavano ancora ed esclusivamente la caccia (Valle Ottara nei pressi di Rieti), si trovavano nuclei le cui testimonianze ci indicano un precoce sviluppo legato ad attività agricole e di allevamento (Pienza).

Questa differenziazione si attenuò nel Neolitico medio quando un’economia mista con la compresenza di attività legate all’ allevamento, alla pastorizia, all’agricoltura e alla caccia, segnò il primo attestarsi di insediamenti nelle aree interne, in particolare lacustri, come il lago di Bolsena e Monte Venere sul lago di Vico. Qui era più semplice sfruttare tutte le condizioni ambientali di un territorio pianeggiante e ricco di acque.

La pratica di allevamento del bestiame era ancora relativamente primitiva, le forme animali domestiche erano, ad eccezione del cavallo e dell’asino, simili alle odierne: ovini, caprini, bovini e suini. Questi venivano utilizzati soprattutto come fonte proteica che integrava quella della caccia.

Anche il sistema tecnico-produttivo agricolo fu testimone di una condizione primitiva ma già determinante in un processo di modifica delle strutture del paesaggio. Il sistema di coltivazione a ‘campi liberi’ (prearatorio), fondato sul debbio, presupponeva ancora uno spostamento delle comunità, anche se molto limitato. Il debbio, basato su piccoli appezzamenti dagli incerti contorni, prodotti casualmente dall’irregolare allargarsi del fuoco e sui quali si interveniva con la vanga o la zappa, era destinato produttivamente a durare due o tre anni. La comunità era costretta successivamente a spostamenti continui, anche se limitati. I campi abbandonati venivano, dopo alcuni anni, riutilizzati con ulteriori passaggi del fuoco, creando così un’alternanza nel disegno del paesaggio che doveva, anche se in limitate e circoscritte aree, mostrarsi cosparso di macchie informi al centro dei boschi.

Probabilmente fu in questo momento che nelle comunità si innescò il meccanismo di riconoscibilità del luogo e di conseguenza il processo di ri-creazione continua del paesaggio. Ciò non solo a fini produttivi, ma anche come presa di possesso del territorio attraverso la codificazione di percorsi lungo i quali, in breve tempo, si sarebbero attestati siti stabili dotati di proprie caratteristiche urbanistiche. Iniziava così il processo di trasformazione della natura in un paesaggio culturale. I percorsi di transumanza, battuti dagli armenti, divenivano i primi segni stabili nel paesaggio. Erano itinerari che risalivano le valli fluviali verso l’Appennino, allo scopo di evitare i guadi.

Tale sistema avrebbe comportato il passaggio da un regime di nomadismo o di transumanza più o meno disordinato, a uno di alpeggio regolato, che si sarebbe sviluppato e organizzato successivamente nella prima età del Bronzo.

Intorno al XV secolo a.C., la vegetazione che si presentava in pianura consisteva in un esteso manto di sugheri, lecci, roverelle, tigli e aceri, a cui si aggiungevano frassini, ornielli, carpini bianchi e cornioli. La pianura tiberina era caratterizzata da pioppi (alba, tremula, nigra, italica), salici e ontani, con radure e prati di erbe igrofile, come la festuca, l’avena e le altre graminacee.

Un ambiente particolare doveva essere quello dei monti Cimini e Sabatini, dove erano sviluppati castagneti e faggeti con la presenza di frassino, orniello, olivastro, alaterno, lentisco, erica, corbezzolo, pruni, peri selvatici, agrifoglio, ginestre, alloro, pungitopo e asparago.

Con l’intensificarsi dell’allevamento si scoprì la funzione rivitalizzante del letame animale e questo contribuì gradualmente alla scomparsa del sistema del debbio. Per conseguenza le comunità andarono ad attestarsi in siti relativamente stabili, generalmente su promontori in ottima posizione strategica alla confluenza di due valli fluviali. Gli insediamenti dovevano essere collegati al crinale principale, l’antico percorso di transumanza, tramite un crinale di derivazione.

Fu questa la fase che in Italia è stata definita appenninica in quanto fondata su un’economia di transumanza specializzata: le comunità divenivano più numerose in pianura e i siti erano collegati stagionalmente a percorsi verso gli alpeggi. Lungo questi sentieri probabilmente si trovavano delle stazioni notturne di sosta. Nelle valli fluviali del Tevere, Cremera, Treia e Rio Fratta, sono stati individuati circa 20 dei suddetti siti. I percorsi dal Tevere per la valle del Nera giungevano ai pascoli montani nei pressi di Terni. In alcuni casi non tutta la comunità affrontava gli spostamenti stagionali: in pianura esistevano dei siti stabili dove l’attività prevalente era quella agricola e della caccia, in attesa del ritorno invernale degli armenti.

Per quanto nei sistemi di coltivazione fosse ancora presente la tecnica prearatoria (debbio, sistema a campi ed erba), iniziava la sua comparsa, con l’impiego di aratri più o meno rudimentali, l’agricoltura aratoria. Questo sistema però, per tutta la durata del Bronzo, rimase ancora precario, e così i campi il più delle volte venivano abbandonati o sfruttati a pascolo.

Le caratteristiche del popolamento nel Bronzo medio e finale cambiarono radicalmente. La pressione demografica accentuò lo sfruttamento di tutte le risorse ambientali. Vi fu una diminuzione generale degli ovicaprini, probabilmente a causa dello spostamento definitivo di comunità di pastori verso le zone montane e più interne, a seguito della riduzione di aree di pascolo a favore di coltivi. Si registrò invece un incremento nell’allevamento di bovini e suini, come la riduzione (in alcuni casi l’assenza) della pratica della caccia. Un forte sviluppo lo ebbe anche l’agricoltura con un incremento qualitativo e quantitativo di graminacee e leguminose.

Tra la metà del XII e la fine del X secolo a.C., la distribuzione degli insediamenti passava da una localizzazione generalmente in luoghi aperti e in prossimità dei fiumi, a delle posizioni naturalmente fortificate e meglio difese: i tavolati tufacei, le alture collinari dei monti Cimini e Sabatini (Monte Sant’Angelo) e le aree pianeggianti in prossimità della costa tirrenica e delle rive lacustri (Bracciano, Martignano e Baccano).

La distribuzione territoriale si sviluppava in modo vario, a seconda dei tipi di paesaggio agrario e delle condizioni ambientali: pianoro tufaceo, collina vulcanica, pianura marina e lacustre, alture sul Fiume Tevere. Anche se il modello insediativo non poteva evidentemente essere unico, è possibile trovare delle analogie comuni. In primo luogo gli insediamenti erano frazionati in piccoli abitati, ma soltanto quelli situati sui pianori più grandi, per motivi di maggior difesa e controllo strategico del territorio, potevano costituire una sorta di centro tribale, senza tuttavia vere e proprie caratteristiche di egemonia politica.

La caratteristica comune di tutti i centri di questo periodo fu la scelta e la definizione di uno spazio unitario, conchiuso e protetto da recinzioni o difese naturali: tipologia questa segno di una condizione sociale diversa, che si rifletteva soprattutto sulla costruzione collettiva dell’opera di difesa.

Ma è al passaggio del I millennio a.C. che si verificò un’ ulteriore sconvolgimento nel sistema insediativo e negli equilibri territoriali dell’Etruria meridionale. La causa fu un aumento consistente della popolazione con una conseguente e diversa utilizzazione del suolo: si adottava il sistema del maggese biennale (o sistema dei ‘due campi’), che iniziava ad allargarsi su territori sempre più vasti, permettendo una produzione controllata e stabile tramite il riposo annuale di una parte del terreno agricolo. Attorno ai siti maggiori si creavano nelle campagne numerose aziende rurali in diretta comunicazione con il centro principale. Da un sistema insediativo polinucleare, dove i siti erano distribuiti senza particolari gerarchie lungo le principali vie di comunicazione naturali, si passava a una concentrazione degli insediamenti e a un modello mononucleare verso il quale convergevano tutte le attività. Tale modello si diffondeva anche oltre il Tevere, in Sabina e nell’area laziale propriamente detta, dove la maggioranza dei siti aveva un’estensione di quattro o cinque ettari, più di cento abitanti e il controllo del territorio per una qualche decina di kmq. Tra questi troviamo Torre dell’Isola, di due ettari, e Vignale, che con i suoi 13 ettari, è il più vasto sito protovillanoviano tra quelli individuati in Etruria meridionale.

A questa fioritura economica corrispondeva anche una suddivisione etnica di popolazioni che, già dall’età del Ferro, si presentavano distinte attorno al Fiume Tevere: etruschi, falisci e capenati sulla sponda destra; latini, sabini e umbri più a nord sulla sponda sinistra. Il fiume assunse importanza come via di comunicazione per il commercio attraverso l’Italia centrale, con possibilità di diramazioni laterali, grazie ai suoi affluenti, sia verso l’entroterra che verso il nord. Anche il sistema di insediamento lungo la grande ansa fluviale tiberina testimonia un’occupazione più complessa con siti distribuiti in modo regolare e che rispettavano una gerarchia tra centri protourbani, villaggi medi e abitati modesti. A differenza del periodo precedente, dove i siti si trovavano sul fondovalle e sulle prime colline prospicienti il fiume in posizione avanzata e perciò vantaggiosa, in questa fase la concentrazione protourbana degli insediamenti costrinse a un arretramento delle postazioni fluviali. Questo perché l’esplosione demografica e agricola richiedeva terre estese e bene asciutte. Sul fiume restavano le posizioni di controllo agli approdi e ai guadi, in comunicazione diretta con il centro principale. Fu perciò naturale, a seguito del processo di appropriazione territoriale, che il fiume divenisse un segno riconosciuto come confine e anche delimitazione di uno spazio paesaggistico, dove terminava un luogo e iniziava un percorso.

Nella regione il periodo villanoviano vide la nascita dei grandi insediamenti urbani che occupavano superfici anche superiori ai 100 ettari e controllavano territori di 1000 - 2000 kmq. Nell’area falisca si individuavano due tipologie territoriali distinte: una tipicamente villanoviana facente capo a Veio, l’altra seguiva invece una continuità insediativa individuata nell’area di Falerii.

Veio controllava un territorio dove gli abitati, esclusivamente agricoli (circa 100 identificati), erano distribuiti in modo radiocentrico verso il nucleo principale e non presentavano traccia di fortificazioni. Si suppone quindi un sistema dove la popolazione viveva in insediamenti unifamiliari sparsi sui propri campi, modello questo ripreso, come vedremo, dai romani.

Questo fenomeno, tipico dei centri etruschi, non sembrò verificarsi per l’area falisca, laddove si assistette a un continuum di frequentazione dei siti fortificati del Bronzo finale anche nel villanoviano. Pur essendo Falerii la capitale riconosciuta, il territorio era comunque occupato da numerose città e villaggi: Nepi, Sutri, Corchiano, Gallese e altre comunità minori come Grotta Porciosa (nei pressi di Borghetto), Ponte del Ponte (a nord ovest di Corchiano) e Torre dell’Isola (a nord di Nepi). Tutti insediamenti situati in posizioni strategiche e rinserrati all’interno di fortificazioni.

L’espansione demografica e l’allargamento delle superfici coltivate furono rese possibili dalla diffusione ormai in tutta l’Etruria del sistema dei ‘due campi’, testimoniato dal prevalere dei cereali superiori, come il frumento, su quelli inferiori, come il farro e il miglio utilizzati nel sistema del debbio.

La trasformazione del paesaggio tramite la modifica delle strutture territoriali e tecnico-produttive sarebbe divenuta inarrestabile già dall’VIII secolo a.C., a seguito dei progressi del maggese biennale. Il disegno del paesaggio agrario, dapprima una tessitura a chiazze non nettamente delimitate da pascoli, radure e cespuglieti secondo il sistema a ‘campi liberi’, veniva ridelineato dal lavoro dell’aratro e dal maggese biennale (Fig. 2). Aratro e maggese impressero una tessitura ortogonale segnata dai percorsi rettilinei del vomere e sottolineata, più tardi, dalle prime piantate (vite nel VII-VI secolo e olivo nel VI). Queste forme, associate alle opere di irrigazione e drenaggio e con la viabilità interpoderale, avrebbero in seguito costituito le fondamentali unità metriche di delimitazione del terreno connesse anche a scelte urbanistiche e codificate dai romani.

Lo sviluppo dell’agricoltura introdusse l’uso di sistemi di drenaggio delle acque meteoriche. Nell’Agro Falisco il sistema era costituito di cunicoli, veri e propri condotti orizzontali scavati nel tufo con fondo piatto e tetto concavo, che avevano le dimensioni sufficienti per accogliere un uomo per lo scavo e per la manutenzione. I cunicoli, collegati con l’esterno da un sistema di pozzi verticali distanti tra loro 30 metri circa, venivano tracciati in modo da convogliare le acque meteoriche dagli avvallamenti sui pianori in direzione delle forre. (Fig. 3).

In età arcaica, attraverso pratiche selettive e più orientate, si introdussero nell’allevamento animali da cortile quali i columbidi, i fasanidi e gli anatidi (mancavano i leporidi). Arrivavano animali importati dall’Oriente quali il cavallo, il gallo e il gatto. I bovini avevano una mole notevole e grandi corna, a detta anche di fonti latine, laddove vengono menzionate le bianche giovenche della regione falisca, che fanno credere all’uso di una pratica selettiva. Sempre nello stesso periodo ebbero un sensibile incremento i suini, mentre l’allevamento degli ovicaprini subì un calo, anche se l’attività casearia non smise di essere considerevole.

Un elemento particolare del paesaggio agrario dell’Etruria fu la diffusione della coltivazione della vite, allevata su lunghi tralci che si appoggiavano a dei sostegni vivi. Si trattava di un sistema diverso da quello ad ‘alberello basso’ o a ‘palo secco’ utilizzato nella Magna Grecia. Quello etrusco evitava il contatto dei tralci con i terreni umidi e permetteva una coltura promiscua con i cereali. Esso altresì, con la vite maritata a sostegni vivi quali olmi, aceri, querce e pioppi, introdusse ulteriori segni lineari nel paesaggio (Fig. 4).

Poco si conosce dell’organizzazione agricola praticata dalle popolazioni su questi territori. È plausibile un parallelo con le notizie che ci provengono sull’organizzazione etrusca tramite gli autori latini. La terra doveva essere coltivata sia da lavoratori semiliberi, che da piccoli proprietari e contadini liberi. Grazie a queste forme di conduzione, le coltivazioni furono incrementate, ma l’avvento della grande proprietà terriera e l’istituto della schiavitù spinto alle estreme conseguenze, ne decretarono una grave flessione.

Lo sviluppo e la selezione delle varietà vegetali portò a una discreta molteplicità di produzioni. La coltivazione dei cereali era abbastanza sviluppata, anche se non raggiungeva i nove quintali per ettaro. Le specie e le varietà erano il farro, la spelta, il grano tenero, l’orzo, l’avena, il panico, il miglio e la segale. A Falerii e a Tarquinia era fiorente la coltivazione del lino. Per la frutta troviamo il melo, il pero, il fico e il melograno; tra gli ortaggi le fave, i piselli, la veccia, le lenticchie, i ceci, i lupini, la cicerchia, le cipolle, l’aglio, le carote, le rape, i cavoli e i finocchi.

Fin verso il IV secolo a.C., oltre alla popolazione, aumentarono anche le terre coltivabili e i siti dispersi nella campagna. A tutto ciò si sarebbe associata un’imponente espansione commerciale con la creazione di porti e guadi sul Tevere e con la fioritura culturale ed economica sia di Falerii che di altri centri più settentrionali come Corchiano e Vignanello. A questo processo si accompagnò la contemporanea fortificazione dei centri maggiori in conseguenza dell’espansionismo di Roma. Questa già nel 435 - 416 a.C., aveva conquistato Fidene. Ciò avrebbe favorito tra il 402 e il 395 l’alleanza tra falisci, capenati e veienti in funzione antiromana. Dopo alterne vicende e una serie di guerre, Roma nel 241 a.C. avrebbe conquistato definitivamente il territorio falisco.

La città

Tra la metà del XII secolo a.C. e la fine del X, si consolidò la tendenza già in atto di formazione dei nuclei urbani, con lo sfruttamento delle eccezionali condizioni morfologiche del territorio.

I siti prescelti si collocavano sulla sommità di pianori tufacei, alla confluenza di due corsi d’acqua, generalmente perenni, dove le pareti dell’altura erano più ripide e inaccessibili.

È stupefacente come gli insediamenti si adattassero armoniosamente alle caratteristiche geomorfologiche. L’arroccarsi in cima agli speroni tufacei protesi verso le valli sottostanti significava aver raggiunto una profonda coscienza dell’ambiente circostante, tanto da riprodurre anche negli insediamenti le caratteristiche del paesaggio: la forma a fuso/pianoro, il vallum/forra, le fortificazioni/parete, le sepolture rupestri/grotte.

La particolarità fondamentale nella città fu la concentrazione - recinzione e il collegamento interno - esterno tramite la porta principale attraverso la quale si materializzava l’asse longitudinale del crinale. E fu sul rapporto centro - asse che si articolarono tutti gli insediamenti del territorio.

L’asse longitudinale era generatore di tutta l’area urbana e su di esso, in perpendicolare, dovevano attestarsi gli isolati. Il perimetro, già difeso naturalmente, era rafforzato con muri in opera quadrata, mentre nel lato meno protetto, in corrispondenza del passaggio interno – esterno, venivano scavati profondi fossati artificiali anch’essi rafforzati da mura. L’acropoli, dove erano presenti le più antiche tracce di insediamento, appariva di solito isolata e collegata con ponti o istmi. Le necropoli, di varia fattura, erano disposte ad anello intorno alla città.

Falerii costituiva un ottimo esempio di questa tipologia insediativa. Il nucleo più antico appariva quello collegato con una via istmica sul pianoro di Vignale, le cui prime tracce risalgono al Bronzo finale, dove si sarebbe costituita l’acropoli. In seguito, nell’VIII-VII sec. a.C., l’abitato si sarebbe spostato sull’altopiano di Civita Castellana.

L’abitato di Falerii, con una superficie di circa 30 ettari, era posizionato strategicamente sul territorio e collegato al pianoro verso occidente. Tale collegamento era interrotto dal fossato artificiale che ancora oggi si può notare sotto la rocca Borgiana. Altre strutture di difesa, realizzate intorno al V secolo a.C., probabilmente con l’inizio delle ostilità nei confronti di Roma, erano i tratti di mura in opera quadrata in tufo, creati a rafforzare il perimetro urbano nei punti più deboli o comunque meno livellati.

Le necropoli erano disposte tutte intorno all’abitato col quale erano collegate tramite strade e tagliate viarie (Fig. 6).

 

La viabilità preromana come esperienza paesaggistica

I primi percorsi sul territorio erano delineati dalla necessità dei cacciatori di seguire stagionalmente i branchi di animali selvatici nei loro spostamenti dalla pianura pliocenica verso le alture dell’ Appennino. Tali movimenti, non ancora codificati e quindi non derivanti da tracciati permanenti nel paesaggio, dovevano essere orientati da punti di riferimento territoriali che costituivano una delle categorie di segni principali nella percezione dell’ambiente.

Gli elementi primari d’orientamento erano costituiti (ma lo sono tuttora) dai rilievi orografici come il Monte Soratte, la catena appenninica e le alture vulcaniche dei Cimini e dei Sabatini. Le loro presenze suscitavano degli stati attenzionali sia visivi che psicologici, perché confini visivi del plateau vulcanico e, spesso, mete dei percorsi. E furono proprio gli elementi percettivi tutt’ intorno che consentirono ai primi abitanti di stabilire una posizione e una direzione, in un’area dove i segni naturali, come torrenti, boschi e forre, non avevano ancora assunto una propria differenziazione visiva nel tessuto del paesaggio. Gli elementi naturali divennero a loro volta punti di riferimento, e non più sfondo soltanto, grazie a un processo di modifica del territorio che li fece emergere come figure. In tal modo assunsero anche un valore simbolico comune a una cultura e a una popolazione.

Fu proprio con la pratica della transumanza che la migrazione stagionale si perfezionò. Piste che percorrevano le valli fluviali del Treia e del Rio Fratta, risalendo il Tevere fino alla confluenza del Nera, permettevano di raggiungere i pascoli estivi dei monti Sibillini, del Velino e del Gran Sasso. Con molta probabilità i sentieri sfruttavano le condizioni orografiche adattandosi ai crinali, per evitare ove possibile i guadi fluviali (Fig. 7).

Con l’aumento demografico e lo stabilizzarsi degli insediamenti, fu organizzata una fitta rete di percorsi, anche se limitati, per congiungere gli abitati con le fertili campagne circostanti. I percorsi più lunghi che collegavano i siti principali seguivano prevalentemente i fondovalle. Quello della valle del Treia congiungeva al Tevere i maggiori centri falisci di Narce e di Falerii. C’è da dire che gli itinerari di allora erano facilitati da un clima più asciutto dell’attuale. La scarsità di alluvioni fluviali rendeva la percorrenza più sicura per quasi tutto l’anno.

Seguire un percorso di fondovalle significava stare al di sotto del mondo circostante: la percezione tutt’intorno era fortemente condizionata dal limitato campo di visibilità, chiuso su ogni lato dalle pareti tufacee erose dal meandro fluviale. Il cambio di livello, tra la sommità dei pianori e il fondo della forra, suscitava una sensazione di intimità e di protezione. Si creava una sorta di percorso protetto in stretto rapporto con gli elementi naturali: acqua, luce e vegetazione. Il verso di scorrimento del fiume assumeva valore di direzione in un luogo che, per le sue caratteristiche (assenza di orizzonte e di riferimenti territoriali), poteva indurre a un senso di disorientamento (Fig. 8).

Le modifiche del clima, in senso più umido, verificatesi dal XVII fino all’VIII-VII sec. a.C., portarono all’innalzamento del livello delle acque e perciò alla necessaria realizzazione di strade alternative ai fondovalle.

La costituzione di sistemi territoriali basati sui crinali, con le città situate alle testate dei promontori e collegate direttamente con i guadi fluviali, portava all’utilizzo sia di quei percorsi che stavano alla sommità degli altopiani tufacei, sia del grande percorso di crinale della Via Flaminia. Quest’ultimo costituiva il collegamento con il guado fluviale di Fidene.

L’utilizzo dei percorsi di crinale consentiva di congiungere i crateri vulcanici con la valle del Tevere per via delle strette lingue tufacee delimitate dai fiumi e perciò senza bisogno di guado. Il tutto creava una nuova direzionalità antipeninsulare. Tali direzioni, adeguate al sistema orografico, sarebbero state funzionali ai nuovi contatti tra il Tirreno e il centro della penisola, basandosi sulla grande via di comunicazione naturale costituita dalla Valle Tiberina.

L’uso dei percorsi di crinale rappresentò anche il raggiungimento di un completo controllo del territorio: percorrere il crinale voleva dire essere al di sopra, il cambio di livello dava una sensazione di superiorità e dominio anche se non di protezione. Percettivamente la linea dell’orizzonte era più bassa dell’osservatore e il campo visivo lungo permetteva di avere la sicurezza dei riferimenti territoriali (Fig. 9).

A partire dal VII secolo a.C., l’enorme sviluppo dei commerci e l’aumento proporzionale dei trasporti su ruote condussero a una modifica radicale del sistema delle comunicazioni. Ciò consentì il collegamento tra centri di testata con i rispettivi antipolari dei versanti opposti.

L’esigenza di percorsi più veloci e agevoli, richiesta dagli immensi mercati che coinvolgevano i centri sulla costa tirrenica con quelli tiberini, sviluppò nuove capacità ingegneristiche applicate alla costruzione delle strade.

La necessità di contatti commerciali e politici fra i maggiori centri dell’Etruria pose il problema dell’attraversamento di un territorio difficile dal punto di vista morfologico, quale era quello falisco. I lunghi percorsi di scavalcamento si servirono perciò sistematicamente di tagliate viarie (vie cave) e di ponti, per realizzare l’opera di saldatura tra i percorsi di crinale e di fondovalle.

La tagliata era il sistema più economico per mantenere un percorso viario a una quota costante, quando si trovava ad affrontare una depressione del suolo. Nei pressi del percorso romano della Via Amerina se ne trovano vari esempi: l’area denominata i Cavoni a sud di Nepi, la Via Cava di Fantibassi a circa tre km a ovest di Civita Castellana, le vie cave di sant’Egidio e della Cannara nei pressi di Corchiano.

La caratteristica delle strade cave era quella di avere un andamento più o meno curvilineo, al fine di mantenere durante il percorso pendenze costanti che oscillavano, a seconda delle vie, dall' 11 al 18%. Un andamento rettilineo, infatti, avrebbe comportato un’eccessiva inclinazione della sede stradale. Il sistema, nel caso della Fantibassi per esempio, permetteva di affrontare un dislivello del terreno dai 30 ai 40 metri circa, tra la sommità del pianoro e il fondovalle, con una lunghezza in trincea di 190 metri. Le tagliate viarie generalmente avevano una sezione a bottiglia che consentiva di riparare la sede stradale anche per mezzo di canali di scolo delle acque ricavati sulle pareti. La larghezza variava da due a tre metri e mezzo e la pavimentazione presentava solitamente dei sistemi di smaltimento delle acque piovane: canalette laterali o centrali, marciapiedi.

Le vie cave sono testimoni ancora oggi della coscienza territoriale raggiunta dalle popolazioni preromane attraverso il concetto di ri-creazione del paesaggio, le cui necessarie trasformazioni comportavano il dover fare i conti dapprima con le sfavorevoli condizioni del territorio. Tra le tipologie stradali preromane, la tagliata era quella che in maggior misura suscitava delle sensazioni legate al cinetismo dell’osservatore. Avendo in primo luogo la funzione di tramite fra due livelli (altipiano-forra), la tagliata costituiva il passaggio tra l’ombra della forra e la luce del pianoro. Chi percorreva la tagliata viaria stava “al di dentro” del masso tufaceo e gli aspetti percettivi erano condizionati da un campo visivo corto e poco illuminato. Le sensazioni di mistero lungo il percorso e di sorpresa alla fine dello stesso, costituivano una delle più interessanti esperienze psico percettive che il territorio preromano poteva offrire (Fig. 10).

 

Capitolo VII

IL PAESAGGIO DELLA CONQUISTA ROMANA

La dominazione romana costituì una cesura che provocò una profonda trasformazione nel complesso sistema economico e insediativo del territorio della Via Amerina.

L’area controllata da Falerii, al confine con le terre d’Etruria, condusse i falisci, già dal 402 a.C., ad allearsi con etruschi e capenati (Veio, Capena) per contrastare l’espansionismo romano. Purtroppo le continue guerre e saccheggi nel territorio furono la causa di gravi situazioni di instabilità politica ed economica.

Prima con la caduta di Veio e Capena (396-395 a.C.), poi con il successivo ingresso di Nepi e Sutri nella sfera romana, Falerii restò isolata nell’Etruria meridionale e fu costretta a un primo trattato di pace nel 394 a.C.

Le postazioni di Nepi e Sutri, considerate porte d’Etruria perché i loro confini fungevano da barriere e nello stesso tempo come ingressi, permisero ai romani di attestarsi in posizione avanzata per il controllo dell’Agro Falisco. Tra l’altro, la posizione strategica di Nepi (che vedremo consolidarsi nei secoli successivi), come la roccaforte di Sutri, ebbero a costituire un baluardo anche nei confronti della rivale Tarquinia. In questo modo si venne a interrompere il contatto tra le due città alleate Falerii e Tarquinia, che insieme avrebbero potuto creare seri problemi all’egemonia di Roma.

Falerii ebbe ulteriori scontri con Roma: dal 357 al 351 a.C. (al tempo in cui era alleata con Tarquinia); successivamente nel 293; infine, dopo l’interruzione di un trattato di pace perpetua, nel 241, una data cruciale questa nella storia del territorio.

Roma, a seguito delle vicende legate all’occupazione dell’ Etruria meridionale, inseguì due obiettivi nei riguardi dei territori conquistati, ricollegabili entrambi a una politica unitaria: 1. decentramento urbano, per annullare i rischi di ribellione; 2. incremento della produzione agricola.

Il perseguimento di tale politica di conquista, incentrata sullo sconvolgimento delle strutture territoriali, ridisegnò in modo repentino, come mai era avvenuto, il paesaggio dell’Etruria meridionale: furono fondate città ex novo, si diede avvio allo sfruttamento massiccio delle risorse naturali e agricole, nonché alla realizzazione di un diverso e più complesso sistema stradale.

I territori di Sutri, Nepi e Veio, conquistate già nel IV secolo a.C., conservarono in un certo senso il loro status quo; anche gli originari siti occupati dalle città continuarono (e rafforzarono nel caso di Nepi e Sutri) il ruolo svolto precedentemente. Grazie poi all’arrivo di nuovi abitanti, gli insediamenti agricoli furono incrementati fino al punto di interessare i terreni più marginali. E fu questo il periodo in cui si diede inizio al disboscamento della foresta cimina.

Le analisi polliniche effettuate sul lago di Monterosi hanno dimostrato come, fino alla conquista romana, tale area non fosse mai stata toccata dalla presenza umana. Non per nulla la selva cimina era definita impenetrabile e orrenda, e tale restò fino a quando, nel 310 a.C., Quinto Fabio Rulliano non l’attraversò per giungere fino a Perugia. Quest’episodio dimostra come nella pianura vulcanica i boschi avevano ormai perso, già prima dell’ arrivo dei romani, le connotazioni di silva.

Diversa è la strategia dei romani nei confronti dell’area più a nord di Nepi, quella controllata da Falerii. Qui la politica romana intraprese l’evacuazione di tutti i siti di origine preromana, con la conseguenza di far scomparire città egemoni come Narce e Falerii e di avviare a un rapido declino i centri più settentrionali come Corchiano, Grotta Porciosa e Ponte del Ponte.

A differenza dei centri dell’area veientana del IV secolo, l’ abbandono coinvolse anche i siti rurali. Secondo Potter “... più dell’80% dei 104 centri agricoli... decaddero al tempo della conquista romana e il 50% non venne mai più rioccupato”. Pur tuttavia, quest’applicazione della teoria di conquista si completò anche con la simultanea fondazione di fattorie agricole, e in così gran numero, che in epoca repubblicana sorpassarono quelle del periodo precedente.

La distribuzione e le caratteristiche degli insediamenti agricoli variavano secondo le dimensioni. C’era una prevalenza di piccole fattorie con una superficie media di 1000 - 1400 mq. (43% del totale dei siti), una consistente presenza di capanne e ricoveri utilizzati prevalentemente da pastori (35% del totale dei siti) e un buon numero di ville rustiche dotate di terme, porticati, rivestimenti marmorei e stucchi (22% dei siti).

Il potenziamento delle attività agricole e la specializzazione delle colture dovettero modificare notevolmente il paesaggio. Lo sviluppo del maggese biennale e il piano geometrico dei lotti e dei campi, ereditato dagli etruschi, furono perfezionati cercando l’integrazione tra agricoltura e allevamento. Il fine perseguito fu quello di un giusto equilibrio tra sfruttamento delle potenzialità produttive del terreno e il completamento delle stesse con sostanze organiche costituite principalmente dal letame. L’agricoltura romana adottò due sistemi che conferirono al paesaggio forme diverse: il primo detto a ‘campo aperto’, dove tra gli appezzamenti non vi erano segni divisori e dopo il raccolto i maggesi erano lasciati al pascolo promiscuo del bestiame di tutta la comunità; il secondo detto dei ‘due campi’ (alternanza biennale maggese - cereali) con un paesaggio a ‘campi chiusi’ (Fig. 1), delimitato da strade vicinali, siepi e alberate, dove l’integrazione della base foraggiera era assicurata con l’assegnazione di speciali appezzamenti pubblici al pascolo promiscuo. Nel territorio in questione è presumibile che siano stati adottati entrambi i sistemi. L’ adozione del maggese biennale conferì un’orditura di segni ortogonali al territorio tramite la limitatio (divisione del suolo agrario) realizzata attraverso il cardo e il decumanus, che composero non solo la divisione dei campi, ma anche la viabilità pubblica e vicinale.

Le coltivazioni di maggiore importanza erano costituite dai cereali: il farro (Triticum dicoccum e Triticum spelta), il miglio (Panicum miliaceum) e il panico (Panicum italicum). Ma le colture che conferirono un’impronta diversa al disegno del paesaggio furono le piantate costituite prevalentemente dall’olivo e dalla vite, quest’ultima coltivata con il sistema promiscuo sia dell’ ‘alberello’ sia del ‘palo vivo’.

Va rammentata la coltivazione del lino (Linum usitatissimum), pianta utilizzata nell’Agro Falisco soprattutto per la fibra dalla quale si ricavavano abiti, vele, reti da caccia e da pesca.

Gli arboreti si diffusero relativamente tardi in relazione alla modifica del sistema proprietario. Questo, verso la fine dell’età repubblicana, passò dalla piccola proprietà a una concentrazione di fondi con l’utilizzo sempre maggiore di manodopera servile. “A questo sempre più largo impiego della manodopera servile, e all’entità sempre maggiore delle anticipazioni richieste da un’ economia di piantagione, risponde la decadenza delle vecchie forme della piccola proprietà e del piccolo possesso dei coltivatori diretti, e la crescente importanza della grande azienda agraria schiavistica, la villa rustica...”.

Questa tendenza ad accentuare la proprietà terriera (latifundia) avrebbe ridotto il numero delle piccole proprietà di contadini-coloni. La fine del ceto agricolo e l’inizio della decadenza della coltura granaria si sarebbero accompagnati anche a una trasformazione dell’assetto socioeconomico. Diverse zone furono inglobate nei latifondi e lasciate a un’economia soprattutto pastorale che si accentuò in età imperiale.

Assunse importanza il trifoglio e le colture prative in generale. Queste, con un minore investimento di capitali, consentivano di ottenere il massimo rendimento produttivo.

La villa rustica, oltre ad essere una grande azienda agraria, fu anche il luogo dove la cultura romana esibì il proprio senso estetico e paesaggistico. Roma sviluppò il concetto di verde legato al gusto del bello e del diletto personale, tanto da arrivare, nelle grandi ville suburbane, alla trasformazione d’intere porzioni di paesaggio con funzioni diverse e legate alle innovazioni architettoniche e filosofiche provenienti dall’Oriente ellenizzato. Nei giardini e nei grandi parchi delle ville, la vegetazione, spesso esotica, fu utilizzata con effetti scenografici. Tra le essenze erano comuni l’acanto, la rosa, il lauro (introdotto dalla Grecia), il bosso (utilizzato come bordura e nell’arte topiaria), l’edera (dal significato simbolico di gaiezza), il platano (pianta importata dalla Grecia e utilizzata esclusivamente per uso ornamentale), il cipresso (utilizzato per delimitare i fondi rustici e, dal I secolo dell’ impero, diffuso anche nell’ornamentazione dei sepolcri).

Il paesaggio subì un’ulteriore trasformazione e un ritorno, possiamo dire, al disegno paesaggistico del ‘campo aperto’. Questo perché l’antico frazionamento della proprietà, quello a ‘campi chiusi’, e il suo disegno ordinato in lotti, si dissolse in forme aperte e meno rigide, forme che, nel Basso impero, con la crisi della manodopera servile, portarono il maggese biennale verso un sistema di campi e d’erba con lunghi periodi di riposo a pascolo.

Fin dall’inizio del III sec. d.C., la situazione economica condusse a una riduzione del numero dei siti agricoli occupati. Se ne sarebbero avvantaggiati i boschi e la macchia, che in alcune aree avrebbero resistito sino ai nostri giorni.

Le forme del tessuto agrario, che in età repubblicana e alto imperiale rappresentarono il controllo e il dominio geometrico della romanitas sulla natura, col tempo si sarebbero avviate a un processo di degradazione paesaggistica, ritornando a quella naturalitas di un territorio che, ancora oggi, conserva i suoi tratti più selvaggi e caratteristici.

 

La rete stradale romana

L’applicazione del concetto di decentramento urbano e d’ attrazione dei territori italici nella sfera romana trovò la sua esplicitazione materiale nella realizzazione del sistema viario.

Nella conquista dell’Etruria meridionale e nel definitivo assoggettamento e controllo delle popolazioni, i tracciati stradali confermarono la volontà romana di non avere vincoli di carattere storico o ambientale. Roma pianificò le nuove vie di comunicazione con estrema precisione tecnico - politica, adottando solo in parte tratti stradali precedenti e senza esitare ad abbandonarli qualora non fossero stati idonei alla strategia complessiva di conquista.

Il primo concetto con il quale furono determinati i tracciati fu quello d’isolamento dei nuclei urbani preesistenti o di rafforzamento di quelli funzionali al controllo del territorio. Subito dopo la conquista di Falerii, fu codificato nel 220 a.C. il tracciato definitivo della Via Flaminia in funzione della conquista della Gallia Cisalpina. Il nuovo tracciato emarginò, di fatto, la capitale falisca dagli scambi commerciali e ne svuotò il ruolo di centro territoriale. La Via Cassia (probabilmente dal 154 a.C.) abbandonò l’antico centro di Veio e penetrò, rafforzandola, la roccaforte strategica di Sutri. La Via Amerina, come vedremo meglio, collegò in modo stabile Nepi alla Cassia, ma senza toccare gli antichi centri falisci più a nord.

Il secondo concetto fu la velocità di percorrenza. Questa, per ragioni d’ordine militare o amministrativo, doveva consentire di raggiungere nel minor tempo possibile le regioni controllate dall’ espansionismo romano. Il concetto di velocità fu legato alla razionalizzazione del tracciato e al percorso più breve e meno accidentato. Ciò naturalmente comportava ingenti sforzi economici sia nella costruzione che nella manutenzione di ponti, viadotti, tagliate, rilevati e pavimentazioni.

La costruzione e l’amministrazione delle viae publicae

I tracciati stradali erano definiti o da ingegneri militari (praefecti fabrum) o, quando la realizzazione era civile, dai mensores o dagli architecti.

La realizzazione della strada, dopo un tracciamento eseguito con la massima precisione, richiedeva l’apertura di trincee, la formazione di rilevati o l’attuazione di sbancamenti (tagliate): ciò per dare alla strada una pendenza costante e in ogni modo non eccessiva. Parallelamente all’asse della strada erano scavati dei solchi (sulcis) dove si posizionavano delle pietre in verticale (crepidines) che delimitavano i bordi della strada e svolgevano il ruolo di contenere sia il sottofondo che la pavimentazione.

Particolare attenzione si poneva all’irregimentazione delle acque meteoriche e di quelle naturali presenti lungo il percorso. Le strade presentavano notevoli lavori di drenaggio realizzati con opportune pendenze della massicciata che davano modo alle acque di convogliarsi, attraverso canali, verso l’esterno della carreggiata.

Dopo la realizzazione del tracciato e delle crepidini, si badava a mettere in opera un’adeguata fondazione con materiale di riempimento (agger), per uno spessore variabile secondo la consistenza del terreno e con diversa granulometria degli inerti. Spesso si utilizzava anche sabbia e pozzolana con calcina per rinsaldare la base. A seguito del compattamento del sottofondo, erano disposte le pietre di pavimentazione (basoli) costituite da materiale molto duro (basalto, leucite) o materiale locale (calcare, arenaria). Le pietre, connesse con estrema precisione, avevano una forma poligonale che garantiva una maggiore coesione. Per evitare che i carri superassero la crepidine e salissero sui marciapiedi, si disponevano ad intervalli regolari dei basoli in verticale (gonphi). L’opera si completava con l’apposizione di cippi in pietra (miliari) che segnavano la distanza progressiva per ogni miglio (1478 m) (Fig. 3).

La dimensione della carreggiata variava secondo l’importanza e la mole di traffico. Generalmente era di 14 piedi (4,10 m) per le strade di grande comunicazione, ma tale misura non era evidentemente l’unica. Bisogna considerare che l’interasse tra le ruote dei carri era di 90-110 cm, larghezza che permetteva un comodo doppio senso di marcia.

La manutenzione delle strade era affidata ad un curator impegnato nella gestione di tutti i problemi legati a una particolare via. Spesso tale mandato si estendeva anche alle vie secondarie che si dipartivano dalla principale, come il caso delle vie Cassia, Clodia, Cimina e Annia (Amerina?) sottoposte al controllo di un’unica magistratura.

La Via Amerina

Subito dopo Ponte Milvio, a nord di Roma, si dipartivano quattro strade: la Via Flaminia, la Via Tiberina, la Via Cassia e la Via Clodia. Al XXI miglio della Via Cassia, al centro della depressione calderica di Baccano, all’altezza della mansio ad Vacanas, si staccava in direzione nord una delle più importanti e oggi meglio conservate strade dell’Etruria meridionale che arrivava in Umbria: la Via Amerina. La strada fu realizzata a spezzoni. I romani, probabilmente nel IV secolo a.C, pianificarono un primo tratto di collegamento con Nepi. Dopo la conquista di Falerii, 241 a.C., fu dato inizio alla definitiva realizzazione del percorso, che tagliò in linea retta il territorio falisco, ponendo a latere le antiche città preromane e, di fatto, escludendole da contatti con la nuova arteria di comunicazione territoriale.

Rappresentativa di questa scelta politica fu la fondazione ex novo della città di Falerii Novi, proprio sull’asse della strada, fondazione che tradizionalmente è collegata alla distruzione dell’ antica Falerii e alla deportazione dei suoi abitanti nel nuovo sito urbano.

L’Amerina venne quindi a costituire il nuovo asse strutturante del territorio, che, insieme alla parallela Via Flaminia, distante otto chilometri, assunse il ruolo di cardine territoriale per una nuova e sconvolgente geometria nell’assetto geografico-politico locale. La particolarità del tracciato consisteva nella determinazione di un percorso artificiale, in quanto non fondato su condizionamenti morfologici e, sostanzialmente, in contrasto con le strutture orografiche che governavano i percorsi territoriali sino al III secolo a.C. Per questo basta confrontare le scelte effettuate dai romani per il tracciato della Cassia e della Flaminia. Queste due consolari appaiono più naturali, più ubbidienti a regole morfologiche territoriali per la loro capacità di percorrere i crinali ed evitare, per quanto possibile, attraversamenti fluviali. L’Amerina, invece, appare una strada d’ardito ingegno tecnico nell’ attraversare perpendicolarmente i crinali. Questi sarebbero divenuti, per molti anni a seguire, dei decumani di collegamento trasversale tra le pendici dei monti Cimini e il Tevere.

Tutto ciò fu il segno della volontà romana di ri-creazione del paesaggio non più inteso come ripetizione mnemonica delle sue strutture primarie, tipiche dei popoli più antichi, bensì come creazione nuova, tale da segnare un diverso atteggiamento di possesso del territorio.

Il tracciato

Dopo aver superato il monte dell’Impiccato, estrema propaggine del cratere di Baccano, l’Amerina scende lungo le pendici nord della caldera tenendosi sul lato sinistro del fosso di Fontana Latrona, per giungere, dopo l’attraversamento del fosso del Pavone, in prossimità di Ponte di Valle Romana.

Da qui prosegue con un tratto sostanzialmente pianeggiante, attraversando Pian delle Rose fino al fosso dello Stramazzo. Superato il corso d’acqua a quota 203, la strada sale fino a quota 226. Questo è il primo segmento dove si può individuare il basolato originario per circa 300 metri che ci conduce, tramite un terrazzamento, prima in pendenza poi dolcemente pianeggiante, fino al torrente che attraversa Valle Larga. Oltrepassato il torrente, i resti della massicciata non sono più individuabili; la strada doveva curvare verso sinistra per attraversare un nuovo corso d’acqua (fosso Pasci Bovi) nel punto dove oggi passa l’attuale provinciale dell’Umiltà (Fig. 6). L’Amerina, tramite un ponte con unica arcata, continua il suo percorso a una quota superiore rispetto alla carrabile. La zona denominata Selciatella costituisce, fino e oltre la località detta il Cascinone, uno dei tratti più interessanti per i resti della pavimentazione rimasta intatta: visibili le crepidini, il marciapiede e i gomphi.

L’Amerina corre poi parallelamente alla strada asfaltata per circa 200 metri oltre il Cascinone. Qui è intersecata dalla stessa strada per ritrovarsi, sempre in parallelo, sul lato opposto, nascosta sotto una fitta siepe fino a poco prima di Casale l’Umiltà. Questo tratto era parzialmente conservato fino alla fine dell’ Ottocento.

Da Casale l’Umiltà, la strada si avvale della prima tagliata tufacea per discendere verso il Cerreto, prima del fosso. Sulla destra della via moderna sono ben visibili i basoli sotto la parete tufacea. Il fosso del Cerreto era attraversato con una struttura, probabilmente a tre arcate, in luogo di quella medievale di Ponte Nepesino. Successivamente risale attraverso una tagliata fin sopra il pianoro di San Marcello, dove si stacca il percorso di crinale della Massa, per poi ridiscendere di nuovo in tagliata verso il fosso omonimo, oltrepassato il quale, giunge con un tratto pianeggiante a Nepi. I resti della via romana erano ancora visibili ai redattori della Carta archeologica. La strada entrava a Nepi nel luogo ove oggi sorge una delle porte del Castello Borgiano (Porta Nica): qui, per un tratto di circa 20 metri, sono ancora in posto i basoli. L’Amerina doveva attraversare l’area occupata dal castello e, tramite un tracciato che scendeva verso la forra sul percorso

dell’attuale Via Nepesina, scavalcare il fosso con un ponte al livello di quello attuale, ma poco più ad est.

Superato il fosso del Ponte di Castello, il tracciato sale in direzione nord verso località San Paolo, per raggiungere, dopo un chilometro, Rio Vicano. Attraversato quest’ultimo, dove non sono più presenti resti delle strutture, la strada risaliva parzialmente in trincea fino alla sommità del pianoro di Selva Iella, per ridiscendere poi, ancora in tagliata, fino al torrente detto Fossitello. Qui sono ancora visibili i piedritti dell’antico ponte in opera quadrata. Superato il corso d’acqua si inoltra all’interno del bosco della Tenuta dell’Isola (prima emergenza naturalistica incontrata sul tracciato), per piegare a destra dirigendosi verso Torre dell’Isola. Il primo tratto segue uno stretto crinale (punto più stretto appena 10 metri) per aggirare i due affluenti del fosso dell’Isola e poi scendere costeggiando l’antico sito di Torre dell’Isola e attraversare il torrente. Siamo a quota 170: da qui la strada risale fino a 220 grazie a una serie di tornanti, quindi va ad incontrare la Strada Statale Nepesina in località San Lorenzo. Da questo punto, con un asse perfettamente rettilineo, si dirige verso Falerii Novi (Fig. 7).

Il tratto, scoperto recentemente, mostra una pavimentazione ancora perfettamente conservata sotto circa un metro di terra. Attraversato il pianoro di San Lorenzo, appare per tutta la sua lunghezza l’asse stradale, con una prospettiva che giunge sino all’abbazia di Santa Maria di Falleri (Fig. 4). L’Amerina discende, tramite una trincea, verso il fosso dei Tre Ponti che è attraversato con un viadotto, ancora ottimamente conservato di periodo repubblicano. La strada risale il crinale per poi ridiscendere sul Fosso Maggiore nel tratto più interessante e suggestivo di tutto il tracciato. Da qui la strada - necropoli, tramite il Cavo degli Zucchi, si lancia attraverso Pian della Badessa, dove sotto una siepe ne restano consistenti tracce, fino al superamento prima di Rio Calello e poi di Rio Purgatorio, entrando finalmente, da sud, all’ interno di Falerii Novi. Qui l’Amerina funge da cardo della città e diviene asse strutturante dell’originario assetto urbano; supera quindi il foro e si dirige verso la porta nord dove sono ancora evidenti tracce di pavimentazione.

Subito fuori le mura, la strada piega ad ovest per portarsi verso il Castellaccio di Rio Cruè, poi in linea retta attraversa la macchia del Quartaccio fino alla tagliata che permette l’ attraversamento del fosso delle Sorcelle, per risalire in località Fallarese e procedere sino alla Madonna del Soccorso (Fig. 8).

Attraversato il Rio Fratta la strada sale, tramite una tagliata, verso il pianoro settentrionale di Sant’Antonio e, dopo aver attraversato il fosso delle Pastine, continua con un tratto eccezionalmente pavimentato per circa un chilometro fino alla ferrovia Orte Capranica. Superata quest’ultima, percorre la piana di Mazzoneto e poi scende con una brusca curva verso destra, tramite una tagliata, entro la forra del fosso delle Chiare Fontane. Da qui si dirige in linea retta all’attraversamento del Fosso Carraccio e poi di quello della Gaetta che delimitano il pianoro di Santa Bruna.

Sul pianoro di contrada Aliano si perdono le tracce della strada fino alla tagliata che scende sul fosso di Aliano. Risalito il quale, la strada si portava, presumibilmente, a est dell’abitato di Vasanello per raggiungere Poggio Pelato dove inizia la discesa attraverso Macchia Sparta e tramite il Passo del Lupo, fino a Torre Zelli sul Rio Paranza (Fig. 9). Da qui, individuare il tracciato dell’Amerina risulta problematico: essa doveva comunque risalire la cresta di Resano per poi scendere, nel punto meno ripido e più morbido verso il Tevere, passando nei pressi delle Terme di Orte e arrivando al fiume che superava a Seripola, dove però non restano più tracce del ponte.

Dall’area portuale, tramite la sella di Castiglioni, la strada scende verso il Rio Grande e, una volta superato, risale la valle lungo la riva destra toccando la Solfatara (Fig. 10). Oltrepassa nuovamente il rio subito a monte della confluenza con il fosso del Campo Antico e, dopo 500 metri, piega a sinistra dirigendosi verso nord (passando a circa 300 metri a est di Podere Totano), fino a raggiungere, dopo 2,5 km, la strada per Penna in Teverina, percorrendo il crinale che arriva ad Amelia (Fig. 11).

Questo tracciato, pur conservando una direzionalità costante verso nord e affrontando dei punti difficili come gli scavalcamenti dei torrenti e ben 36 attraversamenti di corsi d’acqua, non è perfettamente rettilineo, ma forma un arco del quale la linea diretta Cassia - Amelia ne costituisce la corda. La distanza in via retta tra i due poli di Baccano e di Amelia misura 48 km, mentre l’arco formato dalla strada misura 54 km, pari a circa 36 miglia romane. La scelta di un tracciato, con uno scarto di soli sei chilometri dalla linea retta, ci illumina sulla capacità dei topografi romani: con poche miglia in più l’Amerina riuscì a raggiungere alcuni obiettivi, come il passaggio obbligato per Nepi, e ad aggirare notevoli difficoltà di carattere geomorfologico. La strada evita le profonde forre degli affluenti del Treia e quelle dell’area del Rio Fratta e, mantenendosi a monte di Orte, supera il Tevere nel punto dove la valle è più ampia e meno ripida (Fig. 5).

Mentre le vie del territorio falisco ubbidiscono a una matrice di origine preromana, che cerca, per quanto possibile, di seguire i crinali o i fondovalle, la Via Amerina invece opera una rotazione ortogonale ribaltando il senso di percorrenza del territorio. È questo che la rende unica nel suo percorso.

 

L’attraversamento delle forre

La forra è un taglio naturale con pareti subverticali all’interno della pianura tufacea e tale solco costituisce una barriera per chi vuole percorrere il territorio dell’Amerina da nord verso sud e viceversa.

La particolarità della strada romana consiste proprio nella sequenza di attraversamenti di queste barriere, sequenza che è scandita dal ripetersi del saliscendi tagliata – ponte - tagliata. Il concetto consiste nel ridurre il dislivello esistente tra la sommità del pianoro e il fondo delle valli conservando una direzione in rettilineo. Il sistema è di scavare una trincea con pendenze costanti, attraverso il pianoro, fino a raggiungere la parete tufacea della forra nel punto più basso possibile e poter scavalcare agevolmente il torrente tramite un ponte (Fig. 12). I ponti presenti sulla Via Amerina sono per la maggior parte riconducibili a una stessa tipologia costruttiva. Gli esempi più significativi si ritrovano sul fosso dei Tre Ponti e sul Rio Maggiore. La struttura consiste in un’anima in opus caementicium, formata con malta e bozzame di pietra stretta sui lati da pareti in opus quadratum di possenti blocchi di tufo. La larghezza dei ponti è quella strettamente necessaria a una carreggiata in grado di superare il corso d’acqua generalmente con un unica arcata.

Tra gli attraversamenti, quello sul Rio Maggiore presenta delle vere e proprie caratteristiche monumentali: la trincea sud e quella nord (Cavo degli Zucchi) costituiscono, sia per dimensioni che per ricchezza di testimonianze, un unicum rispetto a tutto il percorso stradale. Nell’area del Rio Maggiore le tagliate sono eccezionalmente più ampie del consueto (larghezza circa 12 m) e, all’interno di queste, la parte dedicata al transito dei mezzi occupa appena un quinto dello spazio. La tagliata nord ha conservato sotto lo strato di terreno il basolato ancora intatto realizzato con blocchi poligonali di leucite e in parte di basalto. La carreggiata, larga 2.40 m, leggermente displuviata al centro, presenta ancora la crepidine e i gonphi e, in alcuni tratti, delle piazzole laterali probabilmente di ausilio alla circolazione. Ma la peculiarità della tagliata sta anche nell’uso speciale delle sue pareti verticali che sono svuotate di materiale, erose internamente, scolpite in innumerevoli forme domestiche (casa, portico, letto), al fine di creare delle ‘architetture in negativo’ che hanno come archetipo il riparo in grotta e il più vicino sistema di sepolture falisco. Ma nella tagliata sono presenti anche spazi di ‘architetture in positivo’ ricavati nei vuoti perimetrali delle pareti dove si manifestano sepolture più ricche e scenografiche, ad esempio dei mausolei. Di fatto, la Via Amerina, da luogo di transito, si trasformò col tempo in una vera e propria necropoli.

La tagliata è quindi un micro - paesaggio, un luogo artificiale dotato di caratteristiche uniche e formato dalla presenza di strutture antropiche ed elementi naturali che possiamo definire come luogo riassuntivo di un contesto territoriale e paesaggistico più ampio.

Ma la tagliata non è un luogo dove la percezione è statica e univoca, come può essere uno spazio aperto, indefinito nei contorni lontani e non netti (es. il pianoro). Essa, con le sue pareti verticali e rettilinee, con la sua forma che condiziona lo sguardo in avanti, trasmette all’osservatore una sensazione di tensione verso una direzione frontale.

La sequenza tagliata – ponte - tagliata determina un’elevata qualità dinamica del percorso; la fruizione percettiva varia sensibilmente articolandosi in quattro tipologie visive (Fig. 14):

1.      pianoro: vista illimitata/assenza di margini visivi/esterno;

2.      tagliata: vista limitata/margini visivi laterali/ingresso;

3.      ponte: vista parzialmente limitata/margine visivo frontale/interno;

4.      tagliata: vista limitata/margini visivi laterali/uscita;

Le tipologie visive dell’attraversamento delle forre associano a una componente quantitativa (illimitato, limitato, parzialmente limitato) una componente dinamico - sensoriale di movimento e stasi (esterno/stasi, ingresso/movimento, interno/stasi, uscita/movimento, esterno/stasi).

Gli aspetti percettivi della tagliata sono condizionati anche dalla particolare luce che la colpisce. L’immagine delle trincee dell’Amerina, con direzionalità nord sud, varia nettamente secondo le ore del giorno. La luce le illumina totalmente soltanto per un’ora il giorno, quando il sole si trova allo zenit; per il resto della giornata, l’illuminamento diretto mette in evidenza prima la parete ovest e poi quella est. In questo modo contribuisce a una continua variazione di immagine della tagliata con le proiezioni delle ombre della vegetazione e dei margini superiori della trincea (Fig. 15).

 

Falerii Novi

Appena superato il Rio Purgatorio, l’Amerina entra nell’ abitato di Falerii Novi dalla porta sud e fuoriesce verso nord dopo circa 500 metri.

L’incrocio tra la Via Amerina, che è il cardo della città, e il decumano, costituito dalla strada proveniente da Porta Giove, rappresenta il fulcro della tessitura urbana composta da insulae, di cui soltanto una è attualmente visibile.

L’impostazione urbanistica, regolata rigidamente da un’ assialità ortogonale, è chiusa invece da un perimetro irregolare materializzato da possenti mura in opera quadrata nelle quali si aprono nove porte.

La caratteristica principale del luogo, nel contesto che stiamo trattando, è il rapporto tra l’asse stradale e l’impianto fortificato. Qui la forza di penetrazione rappresentata dalla strada contrasta con l’azione di pressione esercitata dalla cinta muraria, che tende a chiudere lo spazio e a delimitarlo.

La tensione visiva e la linea retta, costituite dalla Via Amerina nel territorio, si stemperano all’interno di uno spazio aperto e ampio, ma delimitato da confini visivi netti che separano il dentro (città) con il fuori (territorio).

Per quanto si è detto Falerii Novi si presenta come un luogo diverso, estraneo in qualche modo alle caratteristiche insediative del territorio, e ciò la rende unica. La ragione è che la città fu fondata in un sito pianeggiante, priva di difese naturali, malgrado fosse stata fornita di mura e di torri. Essa è la proiezione dell’ immagine della romanitas, luogo progettato e costruito come una grande città a immagine dell’imponenza e del ristabilimento della pace dopo gli sconvolgenti episodi legati alla conquista. Proprio perché attraversata dall’Amerina, rappresenta anche il centro territoriale e, come tale, conferma una sua collocazione diversa e alternativa rispetto ai modelli insediativi preromani.

La caratteristica primaria del luogo è il suo aspetto di paesaggio di ruderi dai confini chiusi e circoscritti. Questi delimitano visivamente uno spazio pianeggiante con leggere e armoniose ondulazioni, dove l’abbazia cistercense di Santa Maria di Falleri costituisce l’elemento verticale e di riferimento all’interno della cinta muraria.

Diverso è l’aspetto del luogo subito oltre le mura, dove è forte il contrasto tra la parte nord, pianeggiante e completamente coltivata a seminativo, e quella sud, seminaturale e costituita dalla forra del Rio Purgatorio.


Capitolo VIII

IL TERRITORIO DELL’AMERINA DALLA FINE
DELL’IMPERO ROMANO AL XIX SECOLO

 

La Via Amerina come frontiera tra bizantini e longobardi

Le strutture economiche e sociali del Basso impero, già in crisi a seguito della crescita del latifondo a scapito della piccola proprietà terriera, furono colpite, sin dai primi anni del V secolo, da una serie di invasioni di popolazioni nord europee. Queste contribuirono a disgregare il sistema economico e a modificare irreversibilmente le strutture paesaggistiche di tutta la penisola italiana, soprattutto dell’area a nord di Roma.

Fu proprio l’attrazione di Roma sui popoli invasori che condusse a un lungo periodo (circa cinque secoli) di sconvolgimenti politici, guerre, invasioni e saccheggi nei territori intorno all’Urbe. La situazione di guerra fu continua: dal 410, con il sacco di Roma da parte delle truppe visigote, fino al X secolo, con le ultime scorrerie saracene. Il cessato stato di continua guerra non significò però una vera e propria stabilità, ciò a causa delle lotte per l’egemonia e il controllo dell’elezione del papa da parte delle famiglie baronali romane.

La discesa dei visigoti di Alarico (410), con la presa di Roma e il loro successivo ritorno verso la Gallia guidati da Ataulfo (412), creò una situazione di incertezza e di devastazione della zona limitrofa alle grandi arterie stradali, come l’Aurelia e la Flaminia. Decaddero numerose città e stazioni come Veio, Lucus Feroniae, Capena, Falerii Novi, Ad Baccanas e Acquaviva.

Alla morte di Teodorico (526), dopo un periodo di pace durato 30 anni, le lotte per il potere ridussero in crisi il regno Ostrogoto. A seguito dell’oscura vicenda del giovane Atalarico e dell’ uccisione di Amalasunta da parte di Teodato, l’imperatore bizantino Giustiniano mosse guerra ai Goti inviando in Italia Belisario.

La guerra greco gotica (535-553) ebbe come asse portante la Via Flaminia, teatro dei maggiori avvenimenti bellici. Le campagne attorno a Roma furono sconvolte con alterne vicende per circa 18 anni. Fu in questo arco di tempo che le strutture produttive di origine romana iniziarono una lenta, anche se inarrestabile, decadenza. Prima l’Agro Falisco e poi quello Veientano assisteranno al passaggio dai siti sparsi a quelli accentrati, come pure a uno spostamento degli insediamenti agricoli lontano dalle vie di transito.

Con la sconfitta gota e la riorganizzazione amministrativa della penisola sotto lo stretto controllo bizantino, si ebbe un relativo periodo di pace, sino all’invasione longobarda d’Italia e all’ assedio di Roma da parte di Agiulfo nel 593.

L’invasione longobarda contribuì a modificare, ancor più delle precedenti, il sistema economico e insediativo e quindi le condizioni di vita nelle terre occupate. Fu la prima dominazione di un popolo conquistatore a durare così a lungo: essa sconvolse definitivamente le strutture paesaggistiche romane. Queste furono conservate a fatica soltanto nei territori bizantini più prossimi a Roma.

Le vicende legate alla conquista longobarda furono caratterizzate da aspre scorrerie e saccheggi in tutti i territori attraversati. La reazione bizantina fu di arrocco all’interno di città fortificate mettendo in atto un’organizzazione di castra difesi anche da eserciti locali. Dalle fortificazioni i bizantini effettuavano sortite improvvise minacciando continuamente i longobardi, strategia che non impedì in ogni caso l’occupazione da parte degli invasori di estesi territori. Il sistema d’invasione, che non seguì le regole di una spedizione militare, per via del disperdersi dei longobardi in gruppi autonomi e mobili verso varie direzioni, rese difficile la difesa da parte dei bizantini.

La scarsa coesione interna dei longobardi, dotati di un’ impalcatura sociale organizzata intorno a strutture parentali armate (farae), condusse all’assassinio di Alboino e successivamente alla scomparsa di una sorta di potere centrale. Si ebbe quindi un frazionamento particellare dei territori conquistati in completa autonomia e retti da strutture gerarchiche con nomi su base bizantina (duces, comites). I possedimenti longobardi erano costituiti dal ducato di Benevento (570) e di Spoleto (574-576) e a nord, oltre l’Appennino e nella Tuscia, il vero e proprio Regnum Langobardorum. Al centro di questi territori resisteva il ducato di Roma, ormai periferia dell’impero bizantino, collegato da una stretta lingua di terra a Ravenna dove risiedeva l’esarca.

Questa situazione geopolitica, che durò con alterne vicende per circa due secoli, si giocò tutta lungo il tratto di territorio rappresentato dalla Via Amerina (Fig. 1).

Roma si trovò stretta dalla minaccia costituita a sud dal ducato di Benevento e a nord da quello di Spoleto. La prima grande offensiva si ebbe nel 592, quando il duca spoletino Ariulfo decise di scendere lungo la Flaminia e tagliare i contatti tra Roma e Ravenna, occupando Bomarzo, Orte e Sutri. La difesa romana si concentrò nell’area di Nepi, fino a quando l’esarca stesso, Romano, non calò a Roma e intraprese la riconquista della fascia di collegamento con Ravenna, riprendendosi Sutri, Orte, Bomarzo, Narni, Amelia, Todi, Perugia e Luceoli, vale a dire quel territorio simboleggiato dalla Via Amerina e che costituirà il canale bizantino di collegamento tra l’Impero d’Oriente e il ducato di Roma. Per il controllo di questo spazio, ormai divenuto frontiera, si giocarono sia le sorti del papato, nella futura costituzione dello Stato Pontificio, sia i destini dell’occupazione longobarda in Italia.

L’anno successivo alla discesa dell’esarca Romano, si ebbe la controffensiva dei longobardi comandati da Agiulfo (593) che arrivò ad assediare Roma; solo l’intervento di papa Gregorio Magno lo indusse a ritirarsi.

Questo continuo stato di guerra tra bizantini e longobardi portò allo sconvolgimento dei territori lungo l’asse stradale e influì sul precoce processo di incastellamento delle terre prossime al confine.

Fu in relazione alla campagna longobarda del 592 - 593 che probabilmente fu creata nell’Agro Falisco una catena di insediamenti fortificati nei centri di Sutri, Nepi, Civita Castellana e Ponte Nepesino, per il controllo delle vie Cassia, Amerina e Flaminia. Per analogo motivo si potenziarono e fortificarono gli antichi centri romani posti in prossimità della frontiera, come Perugia, Todi, Amelia e Narni.

Nel 605, ad opera del papato, si raggiunse un negoziato tra longobardi e bizantini che condusse a un trattato per il rispetto dei confini del ducato di Roma e del corridoio di passaggio per Ravenna.

La morte di Agiulfo (616) riaprì una serie di conflitti con Bisanzio, sino a quando, con Liutprando (712 - 744), i longobardi non intrapresero una politica di unificazione del regno, tentando di annientare definitivamente la presenza bizantina tra Roma e Ravenna. Questo fu il periodo più difficile per il territorio: il papato svolse un ruolo preminente nella doppia direzione di contrasto dell’espansionismo longobardo e nello stesso tempo di autonomia da Bisanzio, che fu sancita con la condanna dell’ iconoclastia (731) da parte di papa Gregorio III.

Il papato iniziò da questo punto la politica di separazione da Costantinopoli che dominava Roma con l’imposizione di pressioni tributarie non più tollerate. Con l’aiuto del duca di Spoleto e dei longobardi della Tuscia, respinse le truppe bizantine alle porte di Roma (725) ed elesse un suo duca nel 727. A Bisanzio, a questo punto, non rimase che tentare un’ardita alleanza con Liutprando per sottomettere i ducati di Spoleto, di Benevento e di Roma. Così Liutprando giunse a occupare Sutri (728) e a tentare di unificare il Regnum sottomettendo i ducati ribelli. Nel 739 conquistò Orte ed Amelia puntando direttamente su Roma. Fu qui che papa Gregorio III si convinse a chiedere aiuto ai Franchi di Carlo Martello: si trattava di una svolta nella politica papale, ma fu senza risultati.

Soltanto con la morte di Gregorio III (741) e l’elezione di Zaccaria, si ebbe un trattato di pace con Liutprando (742) che, di fatto, annullò le mire unificatrici del Regnum Langobardorum. 

La morte di Liutprando (744) fece sì che i ducati di Spoleto e di Benevento si risollevassero e che si stringessero i rapporti tra papa Zaccaria e Pipino il Breve. Il longobardo Astolfo (749), una volta eletto re, annullò tutte le donazioni di Liutprando, mosse contro Spoleto e Benevento e conquistò Ravenna. Nel frattempo papa Stefano II si assicurò la protezione franca contro Astolfo che fu battuto dapprima nel 755 e successivamente nel 756, dopo che il re longobardo assediò nuovamente Roma per tre mesi, occupando la zona della Cassia. Per i longobardi iniziò la fine del loro regno, Astolfo morì nel 756 e valse a poco la sollevazione di Desiderio che nel 772 occupò Roma, ma fu definitivamente sconfitto da Carlo Magno, figlio di Pipino, il cui intervento era stato invocato dal papa Adriano I. La sconfitta sancì la definitiva affermazione politica della Chiesa di Roma in Italia, con le donazioni al papato delle terre conquistate dai Franchi e con l’atto di sottomissione dei longobardi di Spoleto al papa e ai suoi successori.

Una strada secondaria

L’unificazione dei domini longobardi e bizantini del centro e nord Italia, sotto lo stretto controllo carolingio, portò in secondo piano il ruolo della Via Amerina. Il rapporto di dipendenza dei duchi di Spoleto dal papato, invece, diede nuova importanza territoriale alla Via Flaminia nei collegamenti all’interno dello Stato Pontificio.

Ma la fine della frontiera non condusse di certo alla stabilità politica nel territorio. Nuovi potentati locali sorsero a controllo di vari castra che li utilizzavano per esercitare la loro influenza sull’ elezione del pontefice. La situazione di precarietà, che si accentuò alla morte di Carlo Magno (814), fu motivo di scontri e di assalti alle proprietà ecclesiastiche da parte della nobiltà.

Le sofferenze nelle campagne furono determinate non solo dalle lotte tra i nobili e il clero per l’accumulazione di terre e beni, ma anche dalle frequenti discese di eserciti: vedi i ripetuti tentativi di restaurazione imperiale dei Sassoni, prima con Ottone I (962), poi con Ottone III (998) e successivamente con Enrico III (1046) ed Enrico IV (1084).

In questo contesto, dove le comunità recuperavano le posizioni insediative di epoca preromana, rinserrate sui pianori tufacei in nuclei murati, anche il reticolo viario tornò ad essere in armonia con le strutture morfologiche del territorio. Si recuperarono le strade di crinale e le tagliate, mentre i fondovalle tornarono a costituire i percorsi di collegamento tra i vari villaggi.

Gli attraversamenti del Tevere erano possibili soltanto in barca: i ponti da Ponte Milvio a Perugia erano crollati uno dopo l’altro. Soltanto con Sisto V (1589) fu ricostruito il ponte della Flaminia tra Civita Castellana e Magliano Sabina in sostituzione dell’antico ponte di Otricoli. Con tutto ciò il fiume continuò ad essere oggetto di transiti, anzi le barche e i porti erano numerosi e remunerativi. Alcuni, sulla sponda sinistra, erano controllati dai monasteri di Farfa e di Sant’Andrea in Flumine. Lungo il Tevere scendevano prodotti agricoli e legname per le numerose fornaci di Roma.

Il territorio a nord di Roma fu soggetto all’influenza delle grandi famiglie feudali e latifondiste dei Colonna, degli Orsini e dei Vico, con il risultato del frazionamento della sovranità papale; contemporaneamente iniziò nel XIII secolo lo svincolo dal potere baronale sancito con i primi Statuta delle comunità locali.

Le comunità cercavano un’autoregolamentazione attraverso norme e regolamenti che consentissero una tutela e uno sfruttamento delle risorse ambientali con un equilibrio delle attività agro-silvo-pastorali. A questo scopo le bandite avrebbero assunto, fino al XIX secolo, un ruolo fondamentale nell’integrazione alimentare del bestiame con frasche e ghiande. Tali appezzamenti di terreno, soprattutto boscati, erano lasciati al pubblico uso della comunità e protetti dall’indiscriminato taglio degli alberi: veniva in questo modo regolata la raccolta di legna e il tipo di pascolo, privilegiando quei proprietari che possedevano bestie aratorie indispensabili per le coltivazioni.

È chiaro che queste attenzioni alla tutela del patrimonio forestale, altrimenti aggredito da dissodamenti o attività distruttive della vegetazione, non erano dettate da motivazioni ecologiche, ma da ragioni d’opportunità economica che spingevano a preservare un capitale comunitario. Le norme statutarie, inoltre, disciplinavano tutte le attività economiche, soprattutto quelle agricole: protezione degli oliveti, tutela degli orti e dei frutteti posti subito fuori le mura, difesa dei pochi terreni a pascolo quando erano utilizzati abusivamente dai forestieri. Rientrava in queste norme anche la cattura del lupo (temuto dalle comunità per le stragi di animali domestici) che aveva il suo habitat ideale proprio nelle estese superfici boscate e nei terreni incolti adibiti a pascolo. Lo Statuto di Civita Castellana (1471-1484) prevedeva a questo proposito un premio di 30 soldi a chi uccideva un lupo adulto, dieci per un lupacchiotto.

Mentre nel nord del territorio lo sviluppo di queste autonomie portò alla nascita delle signorie, nello Stato Pontificio invece i comuni semiliberi ricaddero sotto la sfera di influenza delle famiglie romane (gli Orsini, i Savelli, i Colonna, i Borghese, i Borgia, i Vico, i Farnese, ecc.), che, fino al XIV secolo, avrebbero lottato accanitamente per imporre l’elezione di uno dei propri esponenti sul soglio pontificio.

Nel XIII secolo intanto cessavano di sorgere nuovi insediamenti, altri erano già decaduti e abbandonati a seguito delle lotte baronali e delle frequenti carestie. Era il periodo del definitivo assetto territoriale: le città e i nuclei rurali, la viabilità e il paesaggio non avrebbero subito ulteriori e significative modifiche fino al XIX secolo. In questo arco di tempo numerosi siti furono abbandonati e la storia del paesaggio dell’Amerina registrò un avvicendamento continuo tra faticose riprese economiche e repentine flessioni.

L’ultima grande distruzione delle campagne si ebbe nel 1527, quando le truppe imperiali di Carlo V, composte da 20 mila uomini, tra cui i temibili Lanzichenecchi, misero a ferro e fuoco Roma e i suoi dintorni. Il 10 dicembre, nella ritirata delle truppe lungo la Flaminia, la stessa sorte toccò a Civita Castellana e poi a Orte. A Civita in particolare fu distrutta la biblioteca, allora detta ‘aurea’ per la ricchezza di volumi in dotazione.

A questo episodio seguì un lungo periodo di carestia con il nuovo conseguente abbandono delle campagne. Alla crisi si aggiunse l’apertura dei mercati atlantici e lo spostamento degli interessi economici fuori del Mediterraneo.

Già dal XV secolo i papi tentarono di risollevare le condizioni economiche delle campagne, facendo fronte ai latifondi incolti e abbandonati con provvedimenti diretti a migliorare le attività agricole: la bolla di Sisto IV (1476) consentiva a chiunque di occupare i terreni incolti sia di privati che di ecclesiastici con l’obbligo di coltivarne almeno un terzo. Giulio II, con la bolla del 1554, liberò dall’enfiteusi le proprietà ecclesiastiche.

Questi provvedimenti però non ebbero che scarsi risultati. Ulteriori tentativi furono fatti nel 1650 con l’editto di Alessandro VII che impose l’assegna dei fondi rustici ai proprietari per eliminare la piaga dei terreni lasciati improduttivi.

Alla vigilia dell’Ottocento, il territorio si presentava con estesi appezzamenti incolti. Anche se era consistente la presenza di seminativi a grano, prevaleva in ogni modo il paesaggio pastorale su quello prettamente agricolo. Grandi superfici boscate erano interrotte da pascoli e ‘campi aperti’; soltanto nei pressi dei villaggi le coltivazioni si facevano più intensive con orti, vigneti e frutteti: piccole isole in un paesaggio spesso definito desertico e spoglio dagli attenti viaggiatori del Gran Tour (Fig. 2).

L’Amerina, come abbiamo visto, sin dal IX secolo non svolgeva più un ruolo di primo piano nel territorio. Lentamente passò a rango di strada secondaria con funzione di collegamento locale. Il percorso, tuttavia, rimase in funzione negli anni, tanto che era ancora segnalato con l’antico nome di Via Amerina nella carta topografica di Giacomo Filippo Ameti del 1693, dove costituiva il collegamento principale tra Nepi e Civita Castellana. (Fig. 3).

Un secolo più tardi l’Amerina era ancora evidenziata nella carta di G. Morozzo (1791). Ma la realizzazione del collegamento tra la Cassia e la Flaminia (1787/‘89) tramite la Via Nepesina, la sminuì definitivamente d’importanza nella rete viaria tra Nepi e Civita Castellana (Fig. 4).

Il decadimento del paesaggio romano e le strutture paesaggistiche della
cristianità

Le vicende della guerra greco - gotica, le lotte tra bizantini e longobardi e il successivo assestamento territoriale sotto il dominio franco, furono la causa della radicale modifica della struttura produttiva e paesaggistica romana.

La vicenda della costruzione di un nuovo paesaggio non fu repentina, ma scandita nel tempo e nei luoghi a seconda che avvenisse nei territori di frontiera, in quelli soggetti al controllo longobardo o in quelli del ducato romano.

Nel III e IV secolo, la rarefazione dei siti di carattere produttivo della campagna fu proporzionale alla crescita del latifondo. A questo processo si accompagnò lo spopolamento delle città romane poste in prossimità delle vie consolari. Nell’Ager Veientano la continuità di siti sparsi in posizioni aperte si protrasse fino al IX

secolo; nell’area più a nord invece, in prossimità della Via Amerina, vi fu un precoce modificarsi dei siti verso l’ incastellamento.

Il processo di trasformazione che coinvolse le villae rustiche tardoromane si può sintetizzare con la ricerca di siti più difesi naturalmente, meno visibili e lontani dalle grandi arterie romane, che costituivano le vie privilegiate d’invasione. A fronte di una contrazione nel numero degli insediamenti nelle campagne, tuttavia, non vi fu uno spopolamento del territorio. Troviamo, sia a Falerii Novi che a Nepi, impianti funerari cristiani del IV e del V secolo, come le catacombe dei santi Gratiliano e Felicissima e di santa Savinilla con circa mille sepolture. Le stesse località sono sedi di diocesi già attestate nel V e VI secolo. Questa precoce cristianizzazione della zona di Nepi testimonia anche l’esistenza di sedi in funzione di servizio alle comunità rurali.

La perdita di controllo del territorio da parte delle civitates romane, con il conseguente disfacimento delle relazioni economiche e sociali, condusse alla disgregazione del sistema agricolo.

Le comunità rurali che ancora occupavano i luoghi più marginali della campagna, nei siti delle villae tardoimperiali dove il latifondo aveva ormai abbandonato il sistema del maggese biennale, si indirizzarono verso un’economia pastorale, di caccia e di allevamento brado, con il ritorno alla pratica del debbio e del paesaggio del ‘campo aperto’.

In un territorio difficile come quello a nord di Roma, l’ abbandono delle coltivazioni avrebbe condotto prima o poi alla predominanza di aree boschive, sterpete e cespuglieti, dove sarebbe prevalso il paesaggio dell’incultum su quello del cultum.

A contrastare la “selva selvaggia” dell’alto medioevo restavano le comunità rurali di origine tardoromana e il papato nella costruzione progressiva dei Patrimonia Sanctae Romanae Ecclesiae. Già dal VI secolo facevano la comparsa citazioni di fundi, siti nella Tuscia Romana, che da mere proprietà fondiarie avrebbero assunto progressivamente “… valenza di circoscrizioni entro le quali si articola la nuova signoria pontificia sul Lazio” soprattutto nella fase di distacco e autonomia da Bisanzio. Il termine Patrimonium Sancti Petri venne quindi assumendo un carattere politico, e non più soltanto amministrativo dei vari latifondi di proprietà della Chiesa. Il patrimonio sarebbe divenuto inalienabile, perpetuo e privilegiato e perciò, come quello imperiale, esente da tassazioni. I piccoli proprietari terrieri, pur di sottrarsi alla forte pressione fiscale, sarebbero stati costretti a effettuare una doppia operazione di donazione alla Chiesa delle proprietà e di concessione in enfiteusi da parte di questa.

I monasteri

Nell’epoca compresa tra le guerre gotiche e l’invasione longobarda, quindi nel periodo di relativa pace e di riorganizzazione delle strutture territoriali, il Lazio cominciò a essere interessato dal monachesimo, soprattutto con l’opera di Benedetto da Norcia. L’opera benedettina prese l’avvio da Subiaco e consentì, grazie a una ripresa economica e alla fondazione di comunità umane, il coagularsi attorno ai monasteri delle popolazioni rurali. Ciò accadde anche con l’occupazione e il riutilizzo dei siti preromani, come con le forme insediative della cella e del cenobio.

Il recupero delle forme architettoniche rupestri di carattere sepolcrale dei periodi precedenti si articolò nelle nuove funzioni di abitazione e di culto. Si assisteva, anche in questo caso, alla ri-creazione di alcuni aspetti del paesaggio. L’utilizzo dei massi tufacei e la loro trasformazione in luoghi ipogei avveniva lontano dalle arterie stradali romane, recuperando gli antichi percorsi preromani e dando vita, spesso, alla riorganizzazione territoriale delle campagne in nuovi nuclei di carattere urbano. Non mancavano tuttavia esempi di insediamenti isolati dai contesti territoriali, a uso esclusivamente religioso e con forte carattere ascetico.

Nell’VIII secolo la conversione longobarda al cattolicesimo fece crescere d’importanza alcuni grandi monasteri come Farfa. Anche grazie a vari lasciti, questi arrivarono spesso a costituire dei veri e propri centri feudali con proprie organizzazioni economiche, con filiazioni di altri monasteri e con la creazione di plebi o pievi come nuclei di organizzazione sociale nelle campagne.

Posta al centro dei ruderi dell’antica città di Falerii Novi, sull’asse dell’Amerina, si erge l’Abbazia di Santa Maria di Falleri, ancora oggi segno territoriale e punto focale nel paesaggio.

L’abbazia, secondo alcuni autori di estrazione benedettina, compariva menzionata già nel 1179 e soggetta alla regola cistercense; la sua fondazione risale a Pontigny, attraverso la filiazione di St. Sulpice en Bugey. Le menzioni del monastero si susseguono numerose in vari documenti e soprattutto negli Statuta Capitolorum Generalium Ordinis Cisterciensis.

L’anno d’occupazione cistercense è comunque incerto, probabilmente intorno al 1145. Il luogo doveva presentarsi abbandonato e rinselvatichito, non più attraversato da percorsi commerciali importanti dove poteva esplicarsi appieno l’opera di ristrutturazione agricola del territorio da parte dei seguaci dell’ordine di Citeaux.

La caratteristica dei primi insediamenti cistercensi (san Bernardo muore nel 1153) fu quella di recupero di aree incolte e la creazione di centri di produzione agricola e non di polarizzazione urbana.

L’abbazia, con la sua rigida e unitaria articolazione planimetrica e con il rifiuto della decorazione, rifletteva lo spirito purista della Regola e tale figurazione risultava come una “… ‘rivoluzione’ iconoclasta che in fatto di architettura si incarna in un centinaio di abbazie in forma di ‘città-contadine’ modello tra loro quasi identiche”, dove il lavoro manuale era effettuato dai conversi e quindi autosufficiente anche per la manodopera.

A Falerii Novi, come ha osservato Raspi Serra, i cistercensi affermarono la loro presenza soprattutto in rapporto con la ‘memoria’ del paesaggio romano, collocandosi in asse con il decumano e al centro del circuito murario della città abbandonata. In un dialogo privilegiato con l’ambiente, i monaci vennero ad assurgere a perno spaziale del rapporto tra territorio e divino.

Il ruolo economico dell’abbazia fu quindi importante per il territorio. La ricchezza dell’insediamento è confermata in un atto del 1231 per un furto di duemila bovini subìto dal monastero e dal versamento della decima triennale (1295-1298) imposta da Bonifacio VIII.

Dal 1344 il monastero è in rovina. Nel 1392 l’abbazia fu incorporata nei beni dell’Ospedale di Santo Spirito in Sassia e poi nelle proprietà dei Farnese, seguendone i loro destini.

Le domuscultae

Alla costituzione del Patrimonio di San Pietro diede un forte impulso la formazione delle domuscultae, tenute agricole gestite direttamente dalla Chiesa senza ausilio di affittuari, che svolsero un ruolo fondamentale tra il dissolvimento delle fattorie di carattere romano e l’insediamento nei villaggi fortificati (Fig. 7).

Le prime tenute furono fondate da papa Zaccaria (741-752) intorno a Roma, altre quattro furono fondate da Adriano I. Tra queste quella di Capracorum nel 780, con sede a Santa Cornelia nei pressi di Veio. La domusculta di Capracorum aveva possedimenti fino al territorio prossimo alla Via Amerina, con un’ estensione di circa nove chilometri di larghezza per 24 di lunghezza. Essa era divisa in vari fundi ai quali corrispondeva, generalmente, in funzione di centro rurale, un casale dove risiedevano diverse famiglie, una chiesa e dei magazzini: tra questi troviamo Mola di Monte Gelato lungo il corso del Fiume Treia. Nelle domuscultae esistevano terre coltivate, vigne, oliveti, mulini ad acqua; si ricavavano frumento, orzo, vino e ortaggi. La base proteica era assicurata soprattutto dalla carne di maiale.

Queste strutture ebbero il pregio di frenare la fuga dalle campagne e di evitare il completo abbandono dei terreni agricoli. Costituirono anche il primo nucleo d'esercizio del potere temporale del papa, in un momento in cui il pontefice non esercitava ancora un controllo assoluto su Roma come nel ducato. La localizzazione delle tenute, situate a controllo delle vie di accesso a Roma, aveva anche il significato di contrastare le pretese di nuovi proprietari, soprattutto dei comandanti militari locali che miravano al controllo di Roma tramite l’elezione del papa.

Le domuscultae decaddero intorno alla metà del IX secolo a causa dell’opposizione del potere laico a quello del papa. Ciò avvenne anche per via delle scorrerie saracene che in quel periodo devastavano la campagna a nord di Roma e nella zona di Nepi.

La scomparsa delle domuscultae, ultime strutture paesistico-produttive generate dalla tradizione delle villae romane, sancì la trasformazione nel paesaggio dei castra di questa parte dell’ Etruria meridionale, con una funzione prioritaria di difesa del fundus da parte delle comunità rurali. Oltre alle domuscultae esistevano altri tipi di insediamento nella campagna, come la massa e il casale, che si sarebbero evolute in forme più elaborate: la massa a costituire nuclei urbani di riorganizzazione territoriale a carattere prevalentemente agricolo; il casale per secoli a caratterizzare il paesaggio agrario della campagna con la sua forma compatta, spesso fortificata, a servizio del fondo.

L’assetto territoriale medievale come struttura fondante del paesaggio attuale

Il processo d’incastellamento iniziato nel VI secolo, sulla linea di frontiera bizantino-longobarda, arrivò a maturazione nel XIII secolo coinvolgendo tutti i centri del territorio.

Il villaggio fortificato, posto nel punto terminale e meno visibile dei pianori, a picco sulla confluenza dei torrenti e cinto da mura, avrebbe costituito, dal XIII secolo fino ai nostri anni ’50, l’ immagine caratteristica del paesaggio delle forre.

Le comunità agricole, quando a seguito della dispersione romana rioccuparono o fondarono ex novo i siti acropolici, operarono una riappropriazione del territorio, ri-creando un paesaggio che, come nelle origini, era garanzia di memoria e di sicurezza, nonché di rapporto col divino in un periodo di incertezza e di paura. Sintomatica fu la ricerca di spazi e di luoghi chiusi, protetti e controllabili, come le mura di un villaggio o gli antri di un insediamento rupestre, nei quali la struttura diveniva una celebrazione della sicurezza e della potenza divina.

L’insediamento, isolato dal territorio circostante, fatta eccezione per l’unico accesso, aveva la sua fortificazione proprio nel punto più debole con la costruzione prima della torre e poi del castello.

La forma a fuso d’acropoli dei villaggi, sottolineata dalle mura e separata dal resto con un fossato in prossimità del castello (una sorta di forra artificiale), sarebbe stata progressivamente strutturata dapprima con abitazioni lignee e poi col ricorso al tufo.

L’edificazione avveniva con un’operazione che al tempo stesso era di sottrazione e di successiva addizione di materiali. Lo scavo dei magazzini, delle cisterne e delle stalle poste al di sotto delle abitazioni sarebbe servito a recuperare materiale per l’ elevazione delle strutture murarie sovrastanti, determinando unità edilizie composte di locali fuori e dentro terra.

La forma urbana compatta e serrata attorno a un asse principale aveva come fuochi da una parte la piccola ecclesia castri, generalmente con abside e monoaulata, e dall’altra il castello con la torre.

Il castrum insulae (Fig. 9), sul percorso dell’Amerina, rappresentava un esempio di tale tipologia insediativa, anche se con minime varianti dovute alle condizioni orografiche del luogo. Si ergeva su un baluardo tufaceo lungo circa 300 m e separato dal plateau vulcanico retrostante da un avvallamento del terreno. Sicuramente partecipava come fortezza bizantina nel VII-VIII secolo alla teoria di castra messi in atto per la difesa del ducato romano, funzione che rivestivano anche i siti più meridionali di Castel Porciano e Ponte Nepesino. L’accesso al villaggio avveniva di lato rispetto all’asse longitudinale del sito e tramite una porta con chiusura a saracinesca che immetteva direttamente nel vallo. Il fossato divideva l’insediamento in due parti: sul lato ovest il castello, con la torre centrale; sul lato est la chiesa e le abitazioni realizzate in tufo con le loro cantine, magazzini e cisterne sotterranee. Il brano del castrum dell’Isola, poiché paesaggio ruderale, costituisce uno degli elementi del quadro della Via Amerina, composto di un palinsesto di categorie paesistiche (naturale, rupestre, agrario, urbano, ruderale) articolate tra loro e significanti tutte insieme la memoria complessiva del territorio.

Lungo il percorso stradale troviamo altri luoghi appartenenti alla categoria di paesaggio ruderale con analoghe qualità mnemoniche dove il ricordo dell’antica funzione è ancora forte. Alcuni di essi sono prossimi al tracciato stradale, altri, rinserrati sui pianori, stanno a breve distanza: Ponte Nepesino, Castel Porciano e Castel d’Ischia. Questi formano, con quelli più a est di Castel Paterno e Fogliano, un’ immaginaria linea difensiva tra l’Amerina e la Flaminia. Più a nord si situa Pizzo Iella e, verso Corchiano, il Castellaccio di Castiglione; poco oltre Casale Santa Bruna che, anche nel nome, ricorda la funzione difensiva agricola degli originari castra. Tra un sito e l’altro un numero considerevole di segni minori costituiti da torri isolate o casali fortificati: Castellaccio, nei pressi di Faleri; il sito detto La Torre, prima della tagliata del Soccorso a Corchiano; la torre di Resano, sul Rio Paranza. Segni che s’infittiscono nella piana del Tevere con le torri di San Masseo e le due sul promontorio di Castiglioni allo sbocco del Rio Grande.

La tipologia insediativa del villaggio non avrebbe subito alcuna modifica rilevante nei secoli successivi: le addizioni edilizie, le rettifiche dei percorsi viari, la realizzazione di eventuali ponti sulle forre, avrebbero consolidato il carattere compatto dell’insediamento senza nuocere all’immagine originaria delle città. Soltanto nel XV secolo le fortificazioni dello Stato Pontificio effettuate dai Borgia, rafforzando l’area urbana dei primi castelli, avrebbero determinato un ulteriore assetto difensivo dei villaggi come Nepi e Civita Castellana.

Anche gli interventi rinascimentali o barocchi, rigidamente ortogonali o rettilinei, non avrebbero alterato il carattere compatto e forte dei centri, confermando così un rapporto plastico e armonico dell’insediamento con il paesaggio.

Diverso e negativo sarebbe stato invece l’approccio urbanistico e paesaggistico del nostro secolo, teso a operare una frattura netta con l’immagine e le caratteristiche intrinseche dei luoghi abitati.


Capitolo IX

LA VIA AMERINA OGGI

Le trasformazioni del paesaggio agrario dall’Ottocento ai nostri giorni

... Dalle solitudini silenziose della Campagna Romana, si entra qui in una zona boscosa, completamente diversa dal tipo visto sinora. Se il viaggiatore è poi inglese o conosce la campagna inglese, riconoscerà che l’aspetto, la vegetazione, il verde smeraldo dei campi, le grandi querce isolate o a gruppi, le siepi ben curate di biancospino, rovi da more, vitalbie, rose canine, agrifoglio, i bordi delle strade fitti di felci, di pungitopo, le mandrie di mucche bianche e nere che pascolano nei campi verdissimi o che vengono foraggiate in stalli sotto le grandi querce, formano un’autentica visione animata della campagna inglese, come è rarissimo riscontrare nel continente europeo. Qui non sembra di viaggiare in Italia ma attraverso campagne di Surrey, del Devonshire e non occorre nessuno sforzo di immaginazione”.

Questo è il paesaggio che apparve al Dennis negli anni ’40 del secolo scorso, dopo aver superato Monterosi, quando dalla via Cassia si dirigeva verso Nepi. Il suo, come quello di tanti predecessori, era un viaggio alla scoperta di una terra incognita e affascinante caratterizzata da una tessitura di pascoli, boschi e seminativi.

All’inizio dell’Ottocento le campagne intorno a Roma soffrivano ancora della secolare piaga del latifondo e dell’abbandono dei terreni agricoli. A questa situazione endemica si aggiunse nel febbraio 1798 l’occupazione francese di Roma con la creazione della Repubblica romana che durò fino all’agosto dell’anno successivo. Lo stato di occupazione e di guerra costituì un grave peso economico per le popolazioni, che videro il bestiame e altri prodotti agricoli requisiti, spesso razziati, dalle truppe straniere.

Al ritorno del pontefice a Roma, con la restaurazione della Sacra Congregazione del Buon Governo, la situazione economica delle campagne era talmente grave, che fu difficile conciliare le necessità di continui balzelli, anche arretrati, con lo sviluppo dell’agricoltura e col bisogno di far fronte alle frequenti carestie.

Dal 1800 al 1804, con una serie di disposizioni, Pio VII tentò di contrastare l’abbandono delle produzioni. Col Motu Proprio del 2 settembre 1800, cercò di favorire una certa liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli; con quello del 4 novembre 1801, impose delle sovrattasse annue pari a quattro paoli ogni rubbio di terreno incolto, nonché premi corrispondenti a otto paoli per rubbio sottratto al pascolo e coltivato. Tali disposizioni in realtà non si dimostrarono sufficienti, sicché fu necessario incentivare la dimora degli agricoltori sulle terre frazionando il latifondo, aumentando la tassa sugli incolti e incoraggiando l’ enfiteusi anche per le proprietà ecclesiastiche.

In questa situazione di crisi economica e istituzionale, a dire il vero, non si produssero rilevanti modifiche rispetto alle strutture territoriali dei secoli precedenti. La viabilità, sostanzialmente basata sulla rete medievale di collegamento dei vari borghi agricoli, si innervava sulle maggiori arterie costituite dalla Cassia e dalla Flaminia. Quest’ultima, nel 1609, fu fatta transitare a ridosso del centro abitato di Civita Castellana; successivamente, nel 1709, con la costruzione del Ponte Clementino, passò all’interno della città. Ulteriore novità costituì la realizzazione della Nepesina (1787-89), con il tratto tra Civita Castellana e Nepi che permise un agile collegamento tra la Cassia e la Flaminia. Le comunicazioni erano ancora poco agevoli e malsicure anche a causa del fenomeno del brigantaggio che coinvolgeva, oltre all’area maremmana, anche il versante sudorientale dei Cimini, tanto che lungo la Nepesina (chiamata all’epoca Via Flaminia) furono segati numerosi alberi la cui presenza favoriva evidentemente le imboscate da parte dei briganti.

Il Tevere, anche se in flessione rispetto al secolo XVIII, continuava tuttavia a conservare la sua funzione di completamento dei trasporti via terra nel commercio dei prodotti agricoli con Roma. I numerosi porti sul tratto fluviale da Orte al porto di Ripetta, e i materiali trasportati di cui siamo a conoscenza, stanno ad indicare il tipo di produzione effettuato nei territori. A Roma giungevano soprattutto carichi di legna da fuoco e fascine con una quantità che, nel periodo dal 1720 al 1730, era di circa 9800 metri cubi annui, scesi a 6000 dal 1755 al 1795. Sono cifre che evidenziano il massiccio taglio dei boschi effettuato all’inizio del XIX secolo nell’area a nord della capitale. Lungo il fiume scendevano a Roma altri prodotti: il grano dai porti di Ponte Felice, Goliano e Ponzano; l'olio, soprattutto sabino, da Gavignano; il vino da Ponte Felice, Gavignano e Nazzano. Il trasporto fluviale ebbe una flessione nei primi anni dell’Ottocento, sia per l’assenza di manutenzione del letto e delle sponde del fiume, sia per la scarsità di produzione di legname. Dal 1810 in poi, dai porti di Orte, Otricoli e Gallese ebbero fine i carichi di legna per Roma. Ma già dal 1820 non si risaliva più oltre Ponte Felice e dal 1845 sussisteva il totale abbandono del tronco uperiore del Tevere. 

Gli sforzi di Pio VII per risollevare l’agricoltura furono piuttosto vani e la situazione del paesaggio agrario della zona restò pressoché invariata, come denuncia la relazione del Milella sull’ agricoltura di Nepi nel 1844.

A metà del secolo, nel territorio nepesino, i tre quinti della superficie comunale era composta di terreni soggetti alla servitù di pascoli comunali. Era evidente come tale condizione, peraltro comune ad altre aree, dovesse condurre a un sottoutilizzo delle capacità produttive dei terreni lasciati per gran parte al pascolo e sovente rovinati dai greggi e dagli animali bradi. Le servitù erano costituite dalle bandite, dalle conserve dei buoi aratori e dai pascoli civici. Il resto del territorio, con appezzamenti definiti ristretti, era stato progressivamente sottratto al pubblico uso tramite migliorie e recinzioni di vario tipo.

Il Milella descrive “... il territorio di Nepi... in gran parte abbandonato ed incolto”. Le aree coltivate si concentravano attorno al centro abitato e composte: da vigneti “alcuni dei quali sono tramezzati da filari di aceri, ossiano oppi campestri, ai quali sono appoggiate le viti, mentre tutte le altre sono sostenute da pali o da canne”; da poche alberate “... gli olivi, i mori gelsi, gli olmi, e le altre piante di utile agronomia sono rarissime, e quelle poche ch’esistono sono guidate senz’arte, e senza governo”; da presenti aree di coltivi promiscui “... fra le anzidette vigne sono ancora parecchi appezzamenti coltivati ad ortaglie con diverse piante di frutta tanto che bastino pel consumo della limitata popolazione”; da estese presenze di ristretti con boschi “... di querce da frutto, e da scalvo, tramezzate da cespugli di carpini e di spini…,” da notevoli superfici coltivate a cereali e seminate a lino. Inoltre, ci racconta il Milella, nessuna famiglia agricola abitava la campagna e i casali erano deserti e abbandonati.

Era un quadro significativo del territorio che non si discostava con la visione anglosassone del Dennis. Dall'epoca medievale in poi non vi furono grandi modifiche nell'evoluzione del paesaggio agrario. D'altra parte boschi, pascoli, pochi frutteti e oliveti affondavano ancora le proprie radici negli usi preromani: vedi quello del lino o della vite maritata a ‘palo vivo’.

Tutto ciò non precluse tuttavia il nascere di dibattiti sui temi agricoli: si cominciò a discutere di sistemi forestali e di tecniche di conduzione dei fondi. Lo stesso Milella si spinse a redigere le Regole per la migliore coltura per un incremento produttivo, ciò al fine di svincolare i terreni dalle servitù di pascolo.

La cartografia catastale del 1871 (Fig. 5) fotografa la situazione agricola trenta anni dopo lo scritto del Milella. La qualificazione appare abbastanza varia, ma non dissimile dalle descrizioni precedenti: concentrazione di colture intensive nei pressi dei centri abitati come vigna, seminativo vitato, seminativo olivato, orto e prato; un progressivo diradarsi delle colture con seminativo, seminativo con querce, seminativo cesivo a una certa distanza dall’abitato; una presenza discreta di bosco da frutto e bosco ceduo nelle parti più marginali del territorio.

La cartografia evidenzia, inoltre, la scarsa presenza di superfici boscate e il massiccio taglio degli alberi fin dentro le forre; così pure una discreta presenza di colture promiscue e i caratteristici seminativi con querce descritti dal Dennis. Il tracciato della Via Amerina (con il nome di Via Romana) è riportato nel catasto fino al Fosso di Aliano, nei pressi di Vasanello. Per tutto questo tratto la strada risulta interrotta soltanto dopo Falerii Novi e per poche centinaia di metri. Pur essendo ancora transitata, probabilmente con i ponti ancora intatti, risulta evidente la sua funzione di esclusivo collegamento tra i fondi agricoli.

Il confronto con la situazione attuale mette in luce la riappropriazione dei territori effettuata dal bosco a scapito dei seminativi proprio in quei terreni più difficili da coltivare; ma mette in luce anche il dilagare delle costruzioni e la pressoché scomparsa del tracciato stradale (Figg. 2-3-4).

L’ultima trasformazione: l’epoca del tabacco e del nocciolo

Il disegno del paesaggio agrario della Via Amerina rimase sostanzialmente invariato nel dissolvimento dell’organizzazione produttiva romana: dal paesaggio dell’ager (campo) si trasformò progressivamente nel paesaggio del saltus (pascolo) e della silva (bosco) con una predominanza, come abbiamo visto, del seminativo verso la fine del secolo scorso.

In una descrizione dei primi anni del Novecento fatta da Edith Wharton, che percorse in automobile il tragitto da Roma a Caprarola attraverso la Cassia, non si avvertono sostanziali trasformazioni rispetto al passato: “... a ovest l’Agro Romano si srotola verso il lago di Monterosi e il monte Soratte in aride distese di terra da pascolo punteggiata di collinette e dirupi. Man mano che ci allontanavamo da Roma, la bellezza di questo paesaggio severo si manifestava con più convinzione. A destra e a sinistra la terra si estendeva in un’infinità di appezzamenti erbosi, sorvegliati qua e là da una tomba solitaria o dall’alto cancello di qualche vigneto abbandonato. Poi la strada prese a salire e a scendere, regalandoci, mentre salivamo, fugaci visioni di una più estesa catena di colline che scivolava a nordovest verso la foresta del Cimino, e del nebuloso contrafforte dei monti Sabini ad est. Davanti a noi i rilievi si susseguivano senza tregua e la strada ne assecondava le ondulazioni: ora veniva inghiottita negli avvallamenti della terra, ora di nuovo lanciata verso l’alto da qualche lontano pendio, come un lampo di luce sulla superficie del mare. Vi era qualcosa di stranamente seducente nel richiamo di quella strada che fuggiva. Ci faceva cenno da distanze che parevano continuamente aumentare, ci blandiva collina dopo collina, e ci precedeva gettandosi a capofitto giù per i lunghi declivi, costringendo la macchina a una rincorsa affannata, come il branco dietro alla preda.

Per un po' l’entusiasmo della caccia ci distolse dalla vista del paesaggio nelle nostre immediate vicinanze, ma gradatamente fummo pervasi dal senso di quiete di quelle ampie distese immerse nel sole, con il bestiame scuro che pascolava negli avvallamenti e le fattorie sparpagliate che proiettavano la loro poderosa massa contro il cielo… In distanza uno specchio d’acqua azzurro, il piccolo lago di Monterosi interrompe la distesa dei colli; passammo poi accanto al misero villaggio che porta lo stesso nome, e poi su, nella regione collinare dove le siepi e i boschi cedui prendono il posto delle erbe scure”.

Le trasformazioni più consistenti del paesaggio agrario sarebbero avvenute nella seconda metà del nostro secolo con l’ introduzione di due colture particolari: una stagionale, il tabacco, che influirà oltre che sul paesaggio agrario anche su quello sociale; l’altra, di carattere più duraturo, costituita da estese piantate di noccioli (Fig. 7).

La coltivazione del tabacco, varietà perustitza, assunse negli anni ‘50-’60 un’importanza fondamentale per gli aspetti socio-economici e, anche se in misura minore, per quelli paesaggistici. I campi di tabacco si concentravano nei territori dei comuni di Civita Castellana, Castel Sant’Elia, Nepi e Fabrica di Roma con la caratteristica di piccoli appezzamenti di uno o due ettari. L’area di maggior intensità produttiva era quella limitrofa al tracciato della Via Amerina, dalla località San Lorenzo a Falerii Novi. Qui la pianta trovava un terreno idoneo, come un clima favorevole contrassegnato da primavere umide ed estati caldo secche.

La lavorazione richiedeva un elevato utilizzo di manodopera sia nella fase di piantagione che in quella di raccolta ed essiccazione del prodotto. Tale necessità condusse a un consistente utilizzo di lavoratori specializzati provenienti soprattutto dal Salento, prima in forma stagionale e successivamente stabile. Questo comportò un parziale ripopolamento delle campagne, una modifica del paesaggio umano e culturale della zona e un riutilizzo e spesso una nuova edificazione di casolari nella campagna. L’ aspetto più interessante di queste costruzioni rurali erano gli essiccatoi, ormai non più utilizzati, con la tipica maglia strutturale in legno nei quali venivano messe a essiccare le filze di foglie di tabacco.

La coltura del tabacco andò progressivamente diminuendo negli anni ‘70 fino alla marginalizzazione attuale. Di conseguenza furono abbandonati i casolari e gli essiccatoi. Quest’ultimi (ormai visibili soltanto nella zona di Falerii Novi e nei pressi di Borghetto a Civita Castellana) restano gli unici segni nel territorio per la memoria del paesaggio del tabacco e di un periodo fatto spesso di duro lavoro e di sacrifici per tanti uomini e donne (Fig. 6).

Il paesaggio agrario dell’Amerina ha subito, soprattutto negli anni ‘60, una grande trasformazione costituita dall’introduzione massiccia della coltivazione del nocciolo (Corylus avellana). Questa ha interessato in modo preponderante la parte centrale del tratto stradale tra Falerii Novi e Vasanello.

Il nocciolo, autoctono nella regione, è stato sempre coltivato anche se in coltura promiscua insieme con altre specie permanenti, come la vite e l’olivo. Nel 1929, secondo il Catasto agrario, nel Viterbese erano presenti circa 1500 ettari di noccioleti a coltura specializzata e altrettanti a coltura promiscua; tale situazione proseguì sostanzialmente invariata fino alla fine degli anni ‘50. Fu nel periodo 1966 - 67 che la piantata a nocciolo ebbe una diffusione prevalente raggiungendo i 10.500 ettari coltivati. Nel 1976 gli ettari diventarono 13 mila in forma specializzata, più mille in coltura secondaria.

Questa imponente trasformazione del paesaggio è avvenuta soppiantando in primo luogo altre colture legnose come i castagneti da frutto, i vigneti (intercalati dapprima col nocciolo e poi successivamente eliminati), gli oliveti, il bosco ceduo e alcuni seminativi che si sostituirono alla cerealicoltura.

Il paesaggio del nocciolo è uno degli elementi distintivi del territorio dell’Amerina. La sua caratteristica può sintetizzarsi in quattro aspetti:

1.      le piantate conferiscono ai campi un’immagine regolare e rigida con la monotona ortogonalità degli impianti che ammantano per chilometri tutte le superfici, interrompendosi improvvisamente solo al limitare delle depressioni orografiche;

2.      la corilicoltura costituisce un paesaggio a ‘campi chiusi’ con piccoli appezzamenti spesso recintati e difficilmente transitabili;

3.      le piante, anche se hanno un’altezza limitata (7-10 metri), hanno una densità d’impianto e una linearità dei filari tali che condizionano la percezione visiva in modo unidirezionale, limitando la vista sui lati, come in una galleria (Fig. 8);

4.      la presenza dei noccioli, seppur massiccia, in quanto caducifoglie, non contrasta con le variazioni stagionali e si integra con le caratteristiche cromatiche del territorio.

Le componenti del paesaggio agrario della Via Amerina

La Via Amerina attraversa un territorio dove i segni del lavoro agricolo, delle ripartizioni poderali, delle scelte tecnico-produttive raccontano l’evoluzione storica del paesaggio e conservano la memoria delle trasformazioni che, per secoli, si sono succedute sui campi.

Ma questo tessuto agrario, pur fondamentale nella qualificazione e caratterizzazione del paesaggio, più che altro fa da sfondo a quelli che sono alcuni episodi di primo impatto dal punto di vista percettivo e culturale, episodi che, di volta in volta, sono rappresentati dalla morfologia o dalle preesistenze archeologiche che ci fanno leggere meglio il segno territoriale di una forra o di una strada: il rudere o i resti del villaggio medievale innegabilmente costituiscono dei punti di maggiore attrazione. Ma la struttura agraria è una sorta di tessuto connettivo essenziale per l’alta qualità ambientale e storica dell’Amerina; senza questo ‘fondale’, il quadro sarebbe composto da lacerti e frammenti di storia avulsi dal contesto.

Spesso la nostra cultura e la nostra capacità percettiva non ci permettono di leggere il paesaggio agrario secondo certi canoni grammaticali o sintattici che, seppur non proprio rigorosi, sono presenti nella formazione di un paesaggio. Questo ‘fondale’ agricolo fatto di segni secondari e poco percepiti dall’osservatore si può suddividere in due tipologie che si susseguono e ripetono lungo il tracciato stradale (Fig. 14).

La prima, rappresentata dalla parte meridionale della Via Amerina che parte dalla valle di Baccano e finisce a Falerii Novi, è caratterizzata da un paesaggio agrario a ‘campi aperti’ composto di seminativi, pascoli e boschi. Le vaste superfici coltivate dei pianori sono punteggiate dall’ombra dei roveri e dei cerri isolati e delimitate da alte siepi di biancospini, cornioli, pruni, rose canine e ligustri. Non c’è un’orditura regolare del tessuto agrario: le arature sono effettuate di volta in volta nei terreni più acclivi in traverso o a rittochino e le rotazioni agrarie conferiscono una notevole varietà cromatica al territorio, che è giallo oro per il grano duro e per l’orzo a luglio, giallo intenso, primario, per la colza a giugno, rosso per l’erba medica da giugno a settembre, verde per il mais e il tabacco, giallo aranciato per i girasoli ad agosto (Fig. 9).

L’antica tradizione dell’orticoltura infittisce la trama delle coltivazioni nei pressi di Nepi, dove i piccoli e numerosi appezzamenti presentano una gamma stupefacente di verdi ben ordinati in file parallele (Fig. 10). Le recinzioni degli appezzamenti sono limitate: composte da pali in castagno e filo di ferro, da siepi e dalle possenti e antiche macere in blocchi di tufo che delimitano, spesso, la viabilità interpoderale (Fig. 11).

Ma il ‘campo aperto’ è anche l’immagine del paesaggio del saltus, con consistenti superfici a pascolo per le greggi che trovano ospitalità nei vari casolari del territorio (Fig. 12).

La seconda tipologia invece è costituita da una fascia agricola, all’incirca da Falerii Novi a Vasanello, che si caratterizza per un paesaggio agrario a ‘campi chiusi’ dove è la piantata, soprattutto in forma promiscua, che ordina e definisce le sequenze visive del territorio. In quest’area la struttura aziendale è fondata sulla diffusione delle microaziende (0 - 3 ettari) date dalla massiccia pressione demografica sulla terra che, soprattutto all’inizio del Novecento, ha condotto alla frammentazione delle grandi proprietà silvo - pastorali e alla distribuzione di terreni ai contadini con il risultato di un’utilizzazione intensiva dei fondi.

Il paesaggio si chiude scandito dalla fitta trama di noccioleti, vigneti, oliveti, articolandosi in una direzionalità prevalente sud nord, dove la ricerca della produttività cede il passo a una sorta di monotonia priva di spazi naturali, ad esclusione delle superfici boscate nei pressi delle forre (Fig. 15). Qui la caratteristica di insediamento sparso della popolazione sta pregiudicando, soprattutto nei pressi di Falerii Novi, la qualità paesaggistica del tessuto agrario, così come l’orditura regolare delle piantate si smaglia con l’inserimento di numerose abitazioni, creando episodi incoerenti con il contesto rurale.

Esiste una terza fascia ed è quella verso la valle del Tevere, a Orte, dove ritorna il ‘campo aperto’ con un paesaggio composto da seminativi, pascoli e boschi. È un paesaggio che si srotola, insieme all’Amerina, oltre il Tevere lungo la valle del Rio Grande, per congiungersi al paesaggio dell’olivo che scandisce i territori di Amelia (Fig. 13).

Sulla strada: le categorie paesaggistiche della Via Amerina

L’Amerina è un filo che si srotola, in rettilineo, per 50 km. Da sud a nord, il nastro di basalto, di terra battuta, di tufo vivo, di erba e argilla e di travertino, ci conduce attraverso pianori e forre, valli fluviali e insediamenti umani. La strada romana ci svela, volendo, la stratificazione dei gesti umani nel tempo e nello spazio, le trasformazioni della terra e degli elementi naturali.

La peculiarità del percorso, la sua qualità, non può essere correlata a giudizi estetici o di valore, ma alla varietà di parti, anche in contrasto tra loro, che creano un elevato stato di attenzione ricco di elementi naturali e artificiali, positivi e negativi.

La struttura del paesaggio è fatta di parti, ognuna di esse collocabile all’interno di una categoria. È regolata da un tessuto costituito dalla categoria fondamentale del paesaggio agrario che, come abbiamo visto, assume a sua volta ulteriori caratterizzazioni: agrario del seminativo e del pascolo, nelle zone meridionali e settentrionali del tracciato; agrario della piantata nella parte mediana.

All’interno di questa grande categoria s’inseriscono delle situazioni straordinarie capaci di maggiore attrazione percettiva, sia naturali che antropiche. I boschi dei pianori, i torrenti e il fiume costituiscono paesaggi naturali perché luoghi dove la naturalità emerge rispetto all’opera umana. La forra, con le ripide pareti tufacee, spesso incise dall’opera umana, appartiene alla categoria del paesaggio rupestre che interrompe bruscamente il morbido rilievo della campagna. Le rovine degli insediamenti umani, con i resti dei numerosi villaggi medievali, della città di Falerii Novi e delle costruzioni romane lungo la strada, conferiscono un carattere ruderale al paesaggio. Non sono assenti paesaggi urbani di qualità come l’attraversamento di Nepi, o presenze umane vistose ma contrastanti con il territorio limitrofo, create senza logiche di insediamento, non organiche, né omogenee: vedi certe zone residenziali sparse e alcuni stabilimenti produttivi (Fig. 16).

La suddivisione in categorie tipologiche può risultare poco ortodossa nell’analisi del paesaggio, ma è indispensabile quando l’oggetto dello studio, che è la strada, impone un movimento al soggetto fruitore. La percezione del territorio non è quindi statica, non avviene esclusivamente da luoghi privilegiati (punti panoramici o coni visuali), ma dinamica e consequenziale.

La condizione fruitrice di questo paesaggio è dunque il movimento. La strada determina percezioni oggettive dinamiche e variabili: discesa nelle forre con visuali chiuse, percorrenza dei pianori con visuali aperte, attraversamento delle piantate con visuali

chiuse e condizionate, visioni ravvicinate (nelle tagliate) e visioni distanziate dei punti di riferimento (il Soratte, i Cimini).

 In questo quadro vi sono, inoltre, elementi primari ed elementi secondari del paesaggio, in altre parole segni capaci di stimolare la percezione al di fuori di una situazione significante: sono primari i punti di riferimento territoriale (Soratte) e l’autostrada nella valle del Tevere, la cupola della chiesa di san Tolomeo che s’intravede arrivando a Nepi e gli edifici industriali nell’area del Quartaccio; sono segni primari anche le abitazioni nella campagna di Fabrica di Roma, come lo è l’abbazia di Santa Maria di Falleri. La categoria dei segni secondari è costituita invece soprattutto dal tessuto agricolo e da tutti quegli elementi che non danno dei picchi d’attenzione all’osservatore, ma che, in fondo, costituiscono il tessuto connettivo del paesaggio.

La lettura del percorso, infine, è data anche dalle percezioni soggettive del fruitore legate alla cultura personale, alla sua sensibilità estetica, alla sua memoria storica. In alcuni, infatti, più che in altri, l’interesse per gli aspetti storici o per i resti archeologici pone in secondo piano le particolarità vegetazionali dell’area o le tessiture agricole. La lettura di questi segni, primari o secondari, permette la riconoscibilità delle strutture paesaggistiche e definisce l’evoluzione del territorio nel tempo e nello spazio. Ciò avviene con le regole insediative del territorio stesso, i suoi codici ambientali dettati dal clima o dalla morfologia e con l’uso del suolo agrario.

 


 

UN’ESPERIENZA DIDATTICA

 

Durante l’anno scolastico 1996-97, nell’ambito della Commissione per la sperimentazione didattica promossa dall’Amministrazione comunale di Civita Castellana, la Legambiente Le Forre condusse un corso di conoscenza e di consapevolezza del paesaggio per le scuole elementari del I Circolo didattico.

Il corso proponeva un metodo di lettura degli elementi del paesaggio (forme, colori e suoni) attraverso vari livelli d’analisi: dapprima visiva e uditiva, con l’esplicitazione delle sensazioni; poi di riconoscimento culturale degli elementi stessi, invogliando i ragazzi a usare le loro conoscenze. Si è cercato a questo proposito di creare degli stimoli per far emergere nei ragazzi la coscienza del paesaggio. Questo di solito viene da loro assorbito acriticamente: non è raro, infatti, che trovino difficoltà a riconoscere in una fotografia la loro città. Così i ragazzi hanno percorso l’itinerario della Via Amerina, dalla Strada Statale Nepesina fino al Rio Maggiore, ricalcandolo in tre stagioni diverse. Essi hanno tentato di riconoscere, attraverso l’udito, la vista e le sensazioni, i vari elementi del paesaggio e di coglierne le differenze tramite i mutamenti stagionali. Riproponiamo soltanto due dei tratti di paesaggio analizzati, i quali, a nostro parere, sono tra i più espressivi. Gli esempi non a caso riguardano il pianoro e una siepe lungo l’Amerina che più manifestano il cambiamento attraverso il tempo. La necropoli lungo la tagliata invece, con la predominante presenza di sempreverdi e le sue pareti tufacee, mantiene inalterato il suo aspetto attraverso le stagioni. Prova ne è che la stessa, nelle visite successive, è passata in secondo piano nella percezione dei ragazzi. Di fatto, l’attenzione è stata attirata soprattutto da quegli elementi del paesaggio che mostrano evidenti mutazioni nei colori, nella tessitura, nella trasparenza, nella luce, con una sorprendente percezione anche dei fattori climatici.

Il paesaggio visto dai bambini

Il campo arato

Mi trovo di fronte ad un campo arato in un giorno autunnale. In questo paesaggio i limiti sono il Monte Soratte, che è l’elemento evidente, e la fascia orizzontale del bosco composto di alberi verdi.

I colori che connotano il paesaggio sono tutti chiari e caldi: dal marroncino al giallo senape, dal verde pisello al verde cupo. Il tutto reso uniforme da sfumature rossicce.

La sensazione che provo in questo paesaggio di pianura è di libertà: sensazione piacevole perché abituata io in città e disturbata dallo smog delle auto e dal soffocamento degli edifici. Ho voglia di correre e vivere la libertà.

È una giornata invernale e mi trovo di fronte al campo arato che avevo già osservato durante la prima uscita sulla via Amerina.

La fascia orizzontale che fa da confine è più rada e composta di alberi secchi, tranne qualcuno sempreverde che spunta qua e là.

I colori che connotano il paesaggio sono il marroncino dei rami secchi, il verde chiaro del prato, tratti di marrone dove ancora non c’è l’erba.

La sensazione che provo in questo paesaggio è sempre di libertà, per non dire che la bellezza del prato mi fa venire voglia di rotolarmi e di sdraiarmi.

Il silenzio è interrotto ogni tanto dal cinguettio degli uccelli che sembrano salutarci e dal rombo improvviso di un aereo.

È una giornata primaverile un po’ rigida, infatti è piovuto per due giorni, il sole appare e scompare.

Sono di nuovo di fronte al campo arato. I limiti sono sempre gli stessi: il Monte Soratte e la fascia orizzontale degli alberi che adesso hanno una vegetazione fitta fitta, con tante sfumature di verde. Davanti a noi si stende un grande campo coltivato a grano con spighe verdi, tranne una fascia di colore marrone dove il terreno sembra mosso dal trattore.

La sensazione che provo non è desiderio di sdraiarmi perché il terreno è umido, al contrario ho voglia di proseguire sulla strada costeggiata dalla siepe e che si inoltra nel bosco.

Sento forte la voglia di muovermi e proseguire.

 
La siepe

È una giornata di autunno: il cielo è sereno ma qua e là si vedono cirri bianchi.

Mi trovo davanti alla siepe formata da un groviglio di arbusti non molto alti: rovi con more, prugnolo con spini, ginestre sempreverdi.

I colori sono caldi: varie sfumature di giallo, di rosso, di verde. Il colore predominante è il giallo.

La sensazione che provo è di chiusura e di incertezza perché non riesco a vedere oltre la siepe.

La strada prosegue e sono curioso di vedere cosa c’è sul nostro cammino.

È un pomeriggio d’inverno ma il clima è primaverile. La siepe ha cambiato aspetto, la maggior parte degli arbusti sono secchi, brulli, i colori sono spenti.

L’unico arbusto rimasto verde è la ginestra.

La roverella è l’unica pianta che nella siepe mantiene attaccate ai rami le foglie secche, che farà sicuramente cadere quando nasceranno quelle nuove.

Il pruno, forse perché il clima è primaverile, è in fiore: i rami sono pieni di fiorellini bianchi, piccoli e delicati.

Il paesaggio mi rende triste e voglio andare avanti.

Lungo la stradina che conduce al bosco, alla nostra sinistra, vediamo la siepe rallegrata da ciuffi di fiori di ginestra: sembrano girandole di luce.

Camminiamo veloci per questa strada che sembra in festa.

Abbiamo voglia di proseguire. Siamo allegri.

 

 


CONCLUSIONE AL CAPITOLO

Abbiamo riportato dei brani scritti da bambini dagli otto ai dieci anni, per riflettere sul significato di analisi del paesaggio e sugli esiti che essa può produrre. A differenza di noi adulti il cui sentire e il cui vedere passano attraverso le conoscenze acquisite e la nostra memoria storica, i bambini hanno invece sensazioni immediate, emozioni impulsive. Gli esiti tuttavia, a nostro parere, non sono lontani: un paesaggio è fatto di chiusure visuali (che i bambini esprimono nella preoccupazione di non vedere quello che c‘è oltre), di aperture (che loro esprimono come sensazioni di libertà), di colori (che trasmettono caldo o freddo, tristezza o allegria), di forme (la presenza costante e rassicurante del Monte Soratte).

Un paesaggio è, infine, anche per noi, una somma di emozioni che derivano dalla nostra capacità di lettura. Come in un’opera teatrale di cui siamo spettatori e al contempo attori, esso riflette “la rappresentazione di sé che l’uomo sa dare attraverso il paesaggio”.

 

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GLOSSARIO

 

acropoli: (urb.) genericamente la parte cinta da mura e più elevata di una città antica. Al significato originario di fortezza seguì quello di luogo di culto occupato da santuari.

alluvionale: (geol.) terreno formatosi dal deposito di materiali trasportati dai corsi d’acqua.

alpeggio: (agr.) pascolo estivo in montagna.

alveo: (geol.) il solco del corso d’acqua che occupa una parte del letto fluviale.

antipeninsulare: (urb.) dicesi di sistema (viario, idrografico) con andamento prevalentemente ortogonale all’asse principale longitudinale della penisola italiana.

antipolare: (urb.) termine utilizzato in relazione al sistema insediativo. È il nucleo situato sull’opposto versante orografico di un insediamento.

antropico: relativo all’uomo.

appenninica, cultura: (stor.) manifestazione culturale, estesa in gran parte della penisola italiana, del Bronzo medio e recente.

associazione vegetale: (bot.) insieme di piante, il più delle volte appartenenti a specie diverse, adattate ad un determinato biotopo.

attività parossistica: (geol.) fase durante la quale i movimenti all’interno della terra diventano violenti accompagnandosi a fenomeni sismici e vulcanici.

bandita: (stor.) pascolo estivo che ogni anno veniva affittato al miglior offerente tramite asta pubblica con banditore.

bioclimatologia: (biol.) disciplina che studia gli effetti del clima sullo sviluppo degli organismi viventi.

bronzo, età: (stor.) in Italia s’intende il periodo compreso tra il 1800 e il 900 a.C. Suddiviso a sua volta in Bronzo antico (1800-1600 a.C.), Bronzo medio (1600-1300 a.C.), Bronzo recente (1300-1150 a.C.) e Bronzo finale (1150-900 a.C.).

caducifoglie: (bot.) piante che perdono le foglie ogni anno.

calcare: (geol.) roccia sedimentaria contenente oltre il 50% di calcite, nella quale possono essere presenti: dolomite, quarzo, feldspati, selce, argilla e sostanze bituminose.

caldera: (geol.) area di collasso a forma circolare che si sviluppa alla sommità di edifici vulcanici dopo un’intensa fase eruttiva.

campi  ed erba (sistema dei): (agr.) in relazione al campo aperto. Sistema dove le terre a coltura sono abbandonate dopo il raccolto al pascolo promiscuo del bestiame, generalmente, di tutta la comunità.

campo aperto (sistema del): (agr.) termine agrario indicante una ripartizione di campi non suddivisi ne interrotti da stabili confini.

campo chiuso (sistema del): (agr.) termine indicante appezzamenti coltivati con confini segnati da siepi, fosse o vie vicinali.

cardo: (urb.) nell’urbanistica romana asse viario principale con direzionalità nord sud.

casale: (stor.) termine che indicava una proprietà agricola composta di un piccolo fondo ed edifici connessi.

castrum: (urb.) termine che in antico definiva il campo militare romano, nell’alto medioevo si chiama così la forma fortificata di insediamenti a difesa di un territorio.

ceduo: (agr.) bosco di caducifoglie sottoposte a tagli periodici con intervalli più o meno lunghi secondo il prodotto che si vuole ottenere.

cella: camera del monaco.

cenobio: (arch.) comunità religiosa di monaci.

centro di testata: (urb.) indica quei centri sorti sulla sommità di un colle o ripiano tufaceo, alla confluenza o in prossimità di importanti vie di comunicazione siano esse di acqua o di terra, e al termine di un percorso di crinale.

civitas: (urb.) termine che indica la città e la sede amministrativa del territorio rurale circostante nell’epoca romana e la sede vescovile nel periodo cristiano.

converso: laico che effettua lavori manuali in un monastero vestendo l’abito religioso senza averne preso i voti.

corilicoltura: (agr.) coltivazione del nocciolo (corylus avellana)

crinale: (geol.) linea di displuvio tra due compluvi contigui. In esso la percorribilità è facilitata dall’assenza di guadi, dalla costante altimetria e dall’ampia visibilità.

debbio: (agr.) pratica colturale che consiste nel preparare dei cumuli costituiti dagli strati superficiali del terreno e dalla cotica erbosa e cavi all’interno per formare il fornello; l’accensione di questo e la successiva lenta combustione porta a trasformazioni fisico chimiche di vario tipo che si riteneva aumentassero la fertilità del terreno.

deciduo: (agr.) che cade, come le foglie in autunno.

decumano: (urb.) nell’urbanistica romana asse viario principale con direzionalità ovest-est.

dendritico: (geol.) ramificato, detto di forma che appare come le ramificazioni di un albero

diocesi: (stor.) circoscrizione amministrativa dell’impero romano, successivamente circoscrizione soggetta alla giurisdizione spirituale e al governo ecclesiastico di un vescovo.

domo: (geol.) accumulo di magma molto viscoso in prossimità del centro di emissione.

due campi, sistema: (agr.) dicesi di sistema agrario che vede l’alternanza biennale nella coltivazione tra maggese e cereali.

ecclesia castri: (stor.) chiesa all’interno del castrum.

effusione lavica: (geol.) emissione di lava da un condotto vulcanico.

enfiteusi: (dir.) diritto di avere un fondo altrui con l’obbligo di effettuarvi migliorie e di corrispondere un canone in denaro o in natura.

esarca: (stor.) governatore dei domini bizantini in Italia dal VI all’VIII secolo.

falda idrica: (geol.) massa d’acqua sotterranea che riempie con continuità i vuoti presenti nelle rocce permeabili. Le manifestazioni sorgentizie costituiscono i punti di affioramento, in superficie, delle acque di falda.

fara: (stor.) piccolo nucleo gentilizio e militare longobardo che, sotto il comando di un arimanno, costituiva la cellula del ducato.

fitologia: (bot.) scienza che studia i vegetali.

forra: (geol.) stretta e ripida valle torrentizia.

fundus: (stor.) denominazione di piccola proprietà agricola.

glaciazione: (geol.) fenomeno consistente nell’enorme espansione dei ghiacciai polari e vallivi che ha interessato, a più riprese, vaste estensioni della superficie terrestre.

graben: (geol.) profonda spaccatura della crosta terrestre i cui bordi sono limitati da faglie o da un sistema di faglie a gradini.

horst: (geol.) zona della crosta terrestre elevata rispetto alle zone adiecenti, alle quali la unisce una serie di faglie disposte a gradinata.

iconoclastia: (stor.) termine composto di origine greca (eikòn + klàein = immagine + rompere) indicante la dottrina e il movimento di pensiero sorto nel secolo VIII e contrario al culto delle immagini. I periodi iconoclasti vanno dal 754 al 787 e dall’813 all’843.

idromagmatico: (geol.) deposito piroclastico prodotto dall’interazione del magma con acqua esterna.

igrofilo: (biol.) detto di organismo animale o vegetale che predilige i climi umidi.

incastellamento: (stor.) complesso di torri e castelli posti a difesa di un territorio.

insula: (urb.) in origine sinonimo di domus, denomina il blocco residenziale definito dall’incrocio ad angolo retto delle strade nella città romana.

interglaciale: (geol.) periodo compreso tra due glaciazioni.

litologia: (geol.) parte della geologia che studia le rocce nei vari aspetti.

maggese: (agr.) pratica colturale, consistente nel lasciare nudo il terreno fra due colture e per un’intera annata, tenendolo sgombro da piante infestanti con lavorazioni superficiali.

magma: (geol.) massa di silicati inparte o del tutto fusa giacente entro o sotto la litosfera.

magra, livello di: (geol.) fase di minima portata di un corso d’acqua, generalmente avviene nel periodo estivo.

massa: (stor.) insieme di fondi riuniti amministrativamente che prendono il nome da un proprietario o da una località.

meandro: (geol.) ognuna delle sinuosità che caratterizzano il corso dei fiumi.

mensores: (arch.) anche agrimensore, tecnico specializzato nella esecuzione di misurazioni e rilievi quotati di aree, divisioni di lotti, tracciamenti stradali, ecc.

mesofilo: (biol.) organismo che vive in ambienti con umidità media e poco variabile.

miglioria: (agr.) ogni miglioramento apportato ad un fondo.

miocene: (geol.) quarto periodo dell’era cenozoica, compreso tra l’oligocene e il pliocene, va da 24 a 5 milioni di anni fa.

monoaulata: (arch.) chiesa ad aula unica priva di navate laterali, frequente nel primo medioevo.

morfologia: studio delle forme.

maritata, vite: (agr.) termine che indicava l’associazione, nel filare, tra la vite e un sostegno vivo, generalmente un albero.

motu proprio: di propria iniziativa. Nel linguaggio ecclesiastico cominciavano con le parole placet motu proprio, seguite dal nome di battesimo, le lettere del papa, scritte dietro suo comando.

neolitico: ultimo periodo dell’età della pietra.

opera quadrata (opus quadratum): (arch.) muratura di epoca romana in pietra da taglio.

opus caementicium: (arch.) muratura di epoca romana, a sacco che riempiva l’intercapedine tra due cortine e costituita da conglomerato di calcestruzzo in pietrame e malta.

paloartico: (geogr.) relativo alla regione geografica e biogeografica che si estende, dalle terre artiche sino alla regione mediterranea, arabica e siberiana.

paleoclimatologia: (geogr.) disciplina che studia la distribuzione e la successione dei climi nel corso delle ere geologiche.

paleogeografia: (geol.) scienza che studia le condizioni geografiche della Terra nei vari periodi della storia geologica.

palo secco, sistema: (agr.) termine che indicava l’associazione, nel filare, tra la vite e un sostegno ‘morto’, generalmente un palo.

pattern idrografico: (geol.) si intende la configurazione geometrica dell’idrografia superficiale e può essere: dendritico, pettinato, parallelo, meandriforme, radiale, ecc.

pianoro: (geol.) pianura che si situa in una zona sopraelevata ad esempio tra due forre.

piantata: (agr.) l’insieme delle piante di carattere agronomico che occupano una certa zona di terreno (noccioleto, oliveto, vigneto, frutteto, ecc.).

pascolo comunale: (dir.) servitù che grava sui terreni consentendo, in alcuni periodi e in varie forme, di pascolare gli armenti della collettività.

pieve: (stor.) o plebs, indicava originariamente una chiesa battesimale di fondazione vescovile a capo di un’unità circoscrizionale. Il termine assume, successivamente, un significato più ampio di natura pubblica, indicando il territorio rurale e la popolazione ad esso pertinente.

piezometrico, livello: (geol.) livello naturale al quale giungono le acque delle falde acquifere.

piroclastiche, rocce: (geol.) rocce ignee disgregate (scorie, lapilli, ceneri, ecc.) e ricementate. Un deposito piroclastico è il tufo vulcanico.

planiziale, vegetazione: (bot.) si dice delle piante della pianura.

plateau: (geol.) vasta area pianeggiante, di varia origine. Spesso è usato come sinonimo di espandimento lavico.

pleistocene: (geol.) primo periodo dell’era quaternaria, nel quale sono comprese le glaciazioni. Si suddivide in p. inferiore, p. medio e p. superiore, va da 1.7 milioni a 10 mila anni fa.

pliniana, eruzione: (geol.) esplosione iniziale della sommità di un vulcano quiescente e successiva emissione mista di lava e prodotti piroclastici.

pliocene: (geol.) ultimo periodo dell’era cenozoica o terziaria, va da 5 a 1.7 milioni di anni fa.

policaule: (agr.) dal greco polys = molto e dal latino caule = fusto, gambo. Termine che indica il sistema di allevamento del nocciolo con più fusti per ogni pianta.

portata: in idraulica è il volume o il peso di un fluido che nell’unità di tempo attraversa la sezione di un condotto.

postglaciale: (geol.) intervallo di tempo tra due glaciazioni.

prodotto di ricaduta: (geol.) deposito di piroclastiti dovuto all’accumulo sul suolo di frammenti esplosi da un cratere ed eiettati verso l’alto attraverso una colonna sostenuta dall’espansione di gas.

protovillanoviana (cultura): (stor.) definizione della cultura di transizione dall’età del bronzo a quella del ferro, tale manifestazione assume aspetti vari secondo le regioni.

quaternario: (geol.) ultima era geologica iniziata due milioni di anni fa, caratterizzata da forti oscillazioni climatiche, dalle glaciazioni e dalla comparsa e diffusione dell’uomo sulla terra.

ruscellamento: azione da parte delle acque piovane scorrenti sulla superficie terrestre.

scavalcamento, percorso: (urb.) percorso che tende a mettere in comunicazione un centro di testata al rispettivo antipolare del versante opposto. Utilizza sovente le tagliate viarie nell’attraversamento perpendicolare dei crinali.

servitù: (dir.) diritto reale gravante su un fondo per l’utilità di un altro proprietario.

sesto d’impianto: (agr.) dicesi della distanza sulla fila e tra le file in cui si collocano le piante all’atto dell’impianto della coltura.

spartiacque: linea di separazione tra due bacini idrografici, passante lungo il rilievo interposto.

specializzata, coltura: (agr.) destinazione del terreno coltivato ad una sola specie di pianta, o al massimo ad un gruppo di specie strettamente affini. Termine che si riferisce generalmente alle piantate.

stratovulcano: (geol.) apparato vulcanico costituito da alternanze di lava stratificata e di materiale detritico di varia origine. La costituzione è dovuta all’alternarsi di fasi di esplosione, che frantumano e fanno ricadere intorno al cratere i materiali detritici, e di fasi d’emissione di lava che si consolida sopra i primi.

tagliata viaria: (urb.) anche via cava, sistema in uso in epoca preromana e poi romana consistente nello scavare una trincea attraverso la quale superare i dislivelli del terreno nell’attraversare una depressione orografica.

termofilo: (bot.) organismo vegetale che predilige il clima caldo.

testata di crinale: (urb.) parte terminale di un crinale, nell’Agro Falisco è definita dalla confluenza di due torrenti dove generalmente si attestano insediamenti umani.

transumanza: (agr.) trasferimento del bestiame, in estate ai pascoli di montagna e in autunno al piano.

trasgressione marina: (geol.) lenta invasione del mare sulla terraferma, causata dall’abbassamento della terra o dalle oscillazioni del livello marino.

vallo: (urb.) dal latino vallum che a sua volta deriva da valum, palo, quindi per vallum originariamente si intendeva una semplice palizzata. È un’opera fortificata costituita, in genere, da un fossato delimitato da una cinta muraria.

villanoviana (cultura): (stor.) con questo termine si denota convenzionalmente la cultura dell’età del ferro caratteristica dell’Etruria, dell’Emilia centrale, della Romagna orientale, a Capua e nel Salernitano.


 

 NOTE

 

Gregotti V., Progetto di paesaggio, in “Casabella”, 575-576, 1991.

“... il paesaggio è l’interfaccia tra il territorio come si manifesta in tutti i suoi mutamenti e nelle sue trasformazioni e il nostro modo di recepirlo: è il territorio, l’ambiente, colto nel suo essersi fatto forma”. Pizzetti I., I luoghi della coscienza paesaggistica, in “Casabella”, 575-576, 1991.

“Ma c’è anche un passeggiare curioso, considerato che in ogni territorio, specialmente in Italia, ogni passeggiata finisce con l’essere una camminata tra memorie le più varie, spesso tra cimiteri di segni e di oggetti che richiamano il passato, tra presenze ammutolite di uomini ormai defunti inserite nelle forme naturali in modi storicamente diversi. Se si considera questo, la passeggiata può essere un’occasione per leggere il territorio, per dare ad esso valore di paesaggio, riconoscendogli quelle valenze che derivano dalle capacità di farsi spettatori attivi, non inerti, di palcoscenici che accolgono le nostre storie e le nostre gesta”. Turri E., Il paesaggio come teatro. Venezia: 1998.

“... ogni qualvolta cioè un gruppo sociale elegge un sito a luogo simbolico, vi riconosce un valore, distinto dalla natura anche se ad essa dedicato, che avvia il luogo a divenire riconoscibile, a definirsi come figura rispetto al circostante. Sia che esso si presenti come monumento, come bosco sacro o addirittura come luogo proibito... testimonia, col suo essere in quel luogo specifico in mezzo ai possibili, un particolare rapporto col territorio oltre che col suolo, rende diversamente visibile l’intero circostante geografico.” Gregotti V., Progetto..., op. cit.

Turri E., Il paesaggio come teatro..., op. cit.

“Un clima buono, ma terribilmente umido e mutevole, incostante ed aspro tanto da influire, oltre che sul fisico, anche sul carattere delle persone: uno dei principali responsabili, fra l’altro, di quell’umore svogliato, pacioccone e nervoso che caratterizza, da sempre, la popolazione di Roma. Un inverno corto ma cattivo, un’estate lunga ma accettabile, che genera fra gli uomini una atmosfera trasandata, quasi balneare, nel sollievo della brezza pomeridiana e delle notti, fresche dopo un sole infernale, ed infine due stagioni intermedie sempre ricche di sorprese, sono il regalo della posizione geografica: la latitudine, la presenza degli Appennini e del lago Mediterraneo.” Quaroni L., Immagine di Roma. Bari: 1976.

Blasi C., Carta del Fitoclima del Lazio, scala 1:250.000. Roma: Regione Lazio-Dip. Biologia Vegetale Università “La Sapienza”, 1993.

Classificazione bioclimatica basata sui valori della temperatura media annua, la media delle temperature massime del mese più freddo e la media delle temperature minime del mese più freddo.

Classificazione bioclimatica basata sul valore delle precipitazioni annuali.

Abbate G., Blasi C., Fascetti S., Michetti L., Filesi L., La vegetazione del Parco Suburbano valle del Treja. Roma: Regione Lazio Ass. Programmazione-Dip. Biologia Vegetale Università “La Sapienza”, 1991.

Roth G.D., Guida alla Meteorologia. Milano: 1978.

Bottero M., Rossi G., Scudo G., Silvestrini G., Architettura solare, tecnologie passive e analisi dei costi-benefici. Milano: 1984.

È interessante accennare ad una particolarità della forra che è quella di invertire, in un certo senso, il gradiente termico verticale cioè la variazione della temperatura con la quota. In condizioni normali la temperatura diminuisce di 5-6 °C ogni 1000 metri di aumento di quota dando origine ad una situazione di instabilità verticale dell’atmosfera che tende a far circolare l’aria più calda a contatto con il suolo verso l’alto e a far discendere l’aria fredda, più densa, verso il terreno. La forra determina invece condizioni di inversione termica costanti in quanto il gradiente termico cambia segno, cioè più si scende di livello più si abbassa la temperatura e in questo caso si ha una situazione di “temperatura rovesciata”.

Filippi F., Guerrini A., Progetto finalizzato Ipra., Cnr-Università della Tuscia

“In una pianura piatta l’estensione è generale ed infinita, ma le variazioni del rilievo danno in genere origine a degli spazi definiti. È importante distinguere tra la struttura e la scala del rilievo. La struttura può essere descritta in termini di nodi, percorsi e domini; ossia di elementi che ‘centralizzano’ lo spazio come le colline, le montagne isolate o i bacini circoscritti, e di elementi che orientano lo spazio come le valli, i fiumi e i wadis, oppure di elementi che definiscono uno schema spaziale esteso, come le sequenze uniformi di campi ed alture.” Norberg-Schulz C., Genius Loci, paesaggio ambiente architettura. Milano: 1986.

Cosentino D., Parotto M., La struttura dell’Appennino Centrale, in Guide Geologiche Regionali. Roma: 1993.

Cimarra L., Sciosci S., Civita Castellana. Viterbo: 1988.

Gliozzi E., Malatesta A., Il Quaternario, in Guide Geologiche Regionali. Roma: 1993.

De Rita D., Il Vulcanismo, in Guide Geologiche Regionali. Roma: 1993.

Ciccacci S., Del Monte M., Fredi P., Caratteristiche geologiche e geomorfologiche del Parco Regionale Suburbano Valle del Treia, in: Olmi M., Zapparoli M., (a cura di), L’Ambiente nella Tuscia laziale-Aree protette e di interesse naturalistico della Provincia di Viterbo. Viterbo: 1992.

Mancini A., Boni M., Studio geomorfologico per il P.R.G. del Comune di Civita Castellana, 1996.

“Comunque il signor Palomar non si perde d’animo e a ogni momento crede di esser riuscito a vedere tutto quel che poteva vedere dal suo punto d’osservazione, ma poi salta fuori sempre qualcosa di cui non aveva tenuto conto. Se non fosse per questa sua impazienza di raggiungere un risultato completo e definitivo della sua operazione visiva, il guardare le onde sarebbe per lui un esercizio molto riposante e potrebbe salvarlo dalla nevrastenia, dall’infarto e dall’ulcera gastrica. E forse potrebbe essere la chiave per padroneggiare la complessità del mondo riducendola al meccanismo più semplice.” Calvino I., Palomar. Torino: Einaudi, 1983.

I corsi d’acqua attraversati dalla Via Amerina e affluenti del fiume Treia si collocano nella parte meridionale del percorso e sono in ordine da sud verso nord: fosso del Pavone, fosso Stramazzo, fosso Pasci Bovi, fosso del Cerreto, fosso della Cisternetta, fosso del Ponte o di Castello, Rio Vicano, Fossitello, fosso dell’Isola, fosso dei Tre Ponti, Rio Maggiore, Rio Calello e Rio Purgatorio.

I corsi d’acqua affluenti diretti del Tevere sono: Rio Cruè-fosso delle Sorcelle, fosso di Fustignano-Rio Fratta-fosso delle Pastine, fosso delle Chiare Fontane, fosso Carraccio-fosso della Gaetta, fosso di Aliano e Rio Paranza.

Camponeschi B., Nolasco F., Le risorse naturali della Regione Lazio, Monti Cimini e Tuscia Romana, 2. Roma: 1984. Gasperini L., Gli Etruschi e le sorgenti termali, in: Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione. Atti del Convegno di Viterbo: 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

Potter T. W., Storia del paesaggio dell’Etruria Meridionale. Urbino: 1985.

Cfr. cap. II: La Terra.

Cavallo D., Via Cassia, Via Cimina. Roma: 1992.

Ciccacci S., Aspetti geomorfologici, in Lazio: Guide Geologiche Regionali. Roma: 1993.

Lassini P., Pandakovic D., Il disegno del paesaggio forestale. Milano: 1996.

Cfr. cap. V.

Cfr. cap. I e II.

Abbate G., Blasi C., Fascetti S., Filesi L. La Vegetazione del parco suburbano Valle del Treia (Premessa). Roma: 1991.

Ibidem.

La crescita delle piante è limitata data la scarsità di terreno vegetale.

Chiusoli A. (a cura di), Guida pratica agli alberi e arbusti. Bologna: 1993.

Cfr. Cap. VII.

Abbate G., Blasi C., Fascetti S., Filesi L., La Vegetazione, op. cit.

Cfr. Cap. VII

Abbate G., Blasi C., Fascetti S., Filesi L., La Vegetazione, op. cit.

Una delle forre con tali caratteristiche è, ad esempio, quella del Fosso dell’Isola.

Abbate G., Blasi C., Fascetti S., Filesi L., La Vegetazione, op. cit.

La più significativa di queste forre è quella del Rio Maggiore che presenta delle particolarità rispetto al normale tipo appena descritto, dove ad esempio non si dovrebbe trovare presenza di pervinca (Vinca minor), mentre la forra del Rio Maggiore ne ha il sottobosco coperto a tappeto, con un bell’effetto scenografico agli inizi della primavera, quando la pervinca fiorisce. Un’altra particolarità è la presenza di bosso (Buxus sempervirens) allo stato spontaneo.

Si possono trovare esempi di vegetazione ripariale del tipo ‘a galleria’ lungo il fosso dell’Isola, nei tratti dove la forra si allarga.

Paolella A., Le potenzialità di recupero naturale e di organizzazione della città insite nel progetto ambientale delle aree di esondazione, in Tevere, Rivista quadrimestrale dell’autorità Bacino del Tevere, anno I, n. 1. Roma: 1996.

Blasi C., Lembi di foresta planiziale e impianti di fitodepurazione con piante autoctone per riqualificare e rinaturalizzare il Tevere. In Tevere, Rivista quadrimestrale dell’autorità Bacino del Tevere, anno I, n. 1. Roma: 1996.

Consoli V., D’Adamo M.,  (a cura di), Riserva Naturale Tevere Farfa: La Vegetazione. Roma: 1995.

Ibidem.

È doveroso, a questo punto, fare una piccola parentesi sul concetto di ‘alveo del fiume’. Il fatto di pensare che il letto del fiume e il suo alveo siano la medesima cosa, è un luogo comune. Dietro a questa concezione di fiume ci sono le canalizzazioni che ha subito il Tevere negli anni e le conseguenze dovute all’espandersi di una pratica agricola selvaggia, che non si è limitata, in alcuni casi, a far scomparire il bosco alveale, ma ha fatto fuori anche il bosco ripariale, provocando danni immensi durante le piene. Cfr. Blasi C., Lembi di foresta planiziale…, op. cit.

V. Consoli, M. D’Adamo (a cura di), Riserva Naturale Tevere Farfa..., op. cit.

Goethe J.W., La teoria dei colori., a cura di Troncon R. Milano: 1983.

“Quando Monet si volse totalmente alla pittura di paesaggio, non dipingendo più i suoi quadri nello studio, ma all’aperto, a contatto diretto con la natura, suo oggetto di studio approfondito divennero la mutevolezza della luce e dell’atmosfera, secondo le stagioni, le ore del giorno e le condizioni meteorologiche… Osservò che i colori locali degli oggetti sono dissolti dalla luce e dall’ombra, e che i raggi colorati riflessi si compongono in macchie più ricche di variazioni di freddo caldo che di contrasti chiaroscurali.” Itten J., Arte del colore. Milano: 1982.

Goethe J.W., Teoria dei colori…, op. cit.

“Una scuderia di cavalli fu divisa in due parti, di cui una venne dipinta di blu, l’altra in rosso arancio. Nella zona blu i cavalli, dopo una corsa, si rilassavano assai rapidamente, nella zona rossa rimanevano a lungo eccitati ed irrequieti.” Itten J., Arte del colore…, op. cit.

“… consideriamo adesso quegli aspetti del qui e del  in cui il qui è noto e quello che sta al di  è sconosciuto, è infinito misterioso o è nascosto in un grande ‘abisso nero’. “Primo tra questi è l’anticipazione… fanno chiaramente sorgere la curiosità di chi guarda nei confronti della scena che si presenterà ai suoi occhi quando avrà raggiunto la fine della strada.” Cullen G., Il paesaggio urbano. Bologna: 1976.

“Nell’enclosure l’occhio reagisce al fatto di essere circondato da ogni parte. La reazione è statica: una volta entrati in un’enclosure, la scena rimane la stessa finché si resta all’interno o si cammina verso l’esterno, dove una nuova scena si rivela all’improvviso.” Cullen G., Il paesaggio…, op. cit.

“Nero, immobile e silenzioso come un grande animale, dotato di infinita pazienza, l’abisso osserva indifferente la gente camminare avanti e indietro nella luce del sole. Questo è l’ignoto creato dal buio più profondo.” Ibidem.

Itten J., Arte del colore, op. cit.

Cfr. cap. IV.

Kandinsky W., Punto Linea Superficie. Milano: Adelphi, 1991.

Norberg-Schulz C., Genius Loci, paesaggio ambiente architettura. Milano: 1986.

Turri E., Il paesaggio come teatro. Venezia: 1998.

Guidoni E., Architettura primitiva. Milano: 1979.

Angelelli F., Le Mammalofaune pleistoceniche dei principali giacimenti della bassa Valle del Tevere, in Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo. Catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

Probabilmente anche le grotte scavate dal Rellini, in prossimità di Civita Castellana e Corchiano, assolvevano a queste funzioni. Incardona A., Le nuove ricerche nelle cavernette e nei ripari dell’Agro Falisco. Atti Soc. Tosc. di Scienze Naturali, 76, (I), 1969.

Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna e l’allevamento. In Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione. Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne: appunti di archeologia preistorica. In Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione. Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

Angle M., Guidi A., Petitti P., Zarattini A., La Valle del Tevere in età pre e protostorica, in: Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo, catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

Potter W.T., Storia del paesaggio…, op. cit.

Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne..., op. cit.

Per importanza spiccano le forme ovicaprine che non sembrano state addomesticate in loco ma provengono dall’area asiatica sud occidentale dove, già dal 10°-9° millennio, era presente questa pratica di allevamento. Nel Lazio la dimensione delle pecore è mediamente più piccola rispetto a quella dell’Italia settentrionale: in entrambi i casi non sembra sia stata introdotta la razza da carne di taglia maggiore, presente già in Europa fin dal terzo millennio. Anche per i bovidi, comparsi in cattività in Tessaglia intorno al settimo millennio, si prediligono quelli di taglia più piccola fino all’età del Bronzo. La forma animale probabilmente addomesticata in loco, sia per il difficile trasporto sia perché abbondantemente presente, è stata il suino (Sus scrofa). Nelle aree dove prevaleva la pastorizia e quindi dove era più facile trovare delle prede era comune il capovaccaio (Neophron percnopterus). Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna..., op. cit.

Sereni E., Città e campagna nell’Italia preromana, in Studi sulla città antica. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna: 1970.

Norberg-Schulz C., Genius Loci...., op. cit.

Cataldi G., La viabilità dell’Alto Lazio dalle origini alla crisi dell’Impero Romano. In Quaderni dell’Istituto di Ricerca Urbanologica e Tecnica della Pianificazione, 4. Roma: 1966-1970.

Casoria G., La flora e le risorse agricole, in Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione. Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

Cataldi G., La viabilità dell’Alto Lazio..., op. cit.

 Potter W.T., Storia del paesaggio..., op. cit.

Gli scavi effettuati a Narce, nei pressi di Calcata, sulla valle del Treia, potrebbero confermare questa tesi. Il sito era di carattere permanente dove veniva praticata l’agricoltura (cereali), in minor parte la caccia e la pesca e soprattutto l’allevamento del bestiame: bovini, suini e ovicaprini, di queste forme soltanto i suini erano allevati prevalentemente per la carne mentre i bovini venivano utilizzati per l’aratura e per il letame. La parte maggiore dei resti è attribuita agli ovicaprini, utilizzati, quasi esclusivamente, per la produzione di formaggi e di lana. Ibidem.

Sereni E., Città e campagna ..., op. cit.

Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna..., op. cit.

De Lucia Brolli A.M., L’Agro Falisco. Roma: 1991.

Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne..., op. cit.

Di Gennaro F., Il popolamento dell’Etruria Meridionale e le caratteristiche degli insediamenti tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro. In Etruria Meridionale conoscenza, conservazione, fruizione, Atti del Convegno di Viterbo 29/30 novembre-1 dicembre 1985. Roma: 1988.

Ibidem.

De Lucia Brolli A.M., Il territorio sulla sponda destra del Tevere dall’età del ferro all’epoca romana. In: Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo. Catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

Angle M., Guidi A., Petitti P., Zarattini A., La Valle del Tevere..., op. cit.

Non a caso le maggiori città della regione tiberina (Veio, Capena, Falerii, Ferento, Orvieto) sorgono ad una certa distanza dal fiume, in posizioni baricentriche di estesi territori e che guardano al Tevere come confine. Colonna G., Il Tevere e gli Etruschi, in Quaderni del Centro di Studio per l’Archeologia Etrusco-Italica, 12, 1986. Quilici Gigli S., Scali e traghetti sul Tevere in epoca arcaica. In Quaderni del Centro di Studio per l’Archeologia Etrusco-Italica, 12, 1986.

Di Gennaro F., Il popolamento dell’Etruria Meridionale..., op. cit.

Ward-Perkins J.B., Città e pagus: considerazioni sull’organizzazione primitiva della città nell’Italia centrale, in Studi sulla città antica. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna: 1970.

“È così, ad esempio, che l’heredium è unità paesaggistica (e proprietaria) a struttura ortogonale (più particolarmente, anzi quadrata), risultante dalla giustapposizione di due campi (destinati, alternativamente, alla coltura e al riposo), ciascuno dei quali ha le dimensioni di un jugerum: di un rettangolo, cioè, due volte più lungo che largo (1 x 2 actus), la cui metrica è pertanto sempre riferibile alla lunghezza del solco, che un paio di buoi è capace di tracciare d’un sol tratto. Un quadrato di 20 x 20 actus, del pari, è quello che esprime la struttura e la metrica della centuria, l’unità di colonizzazione romana...” Sereni E., Città e campagna..., op. cit.

Casoria G., La flora e le risorse..., op. cit. Cascianelli M., Gli Etruschi e le acque. Roma: 1991.

Azzaroli A., Il cavallo domestico in Italia dall’Età del Bronzo agli Etruschi, in “Studi Etruschi”, vol.XV, (serie II). Firenze: 1972.

“... Ducuntur niveae, populo plaudente, iuvencae, quas aluit campis herba falisca suis…”, Ovidio, Amores III 13, 13.

Caloi L., Palombo M.R., Romei C., La fauna..., op. cit.

Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano, Bari: 1979.

Casoria G., La flora e le risorse ..., op. cit.

Secondo il Potter i siti dal VI secolo al IV passano, nell’Agro Falisco, da 72 a 104 anche se vi è una tendenza all’agglomerarsi nei dintorni dei centri principali e l’abbandono di quelli più marginali e più vulnerabili. Potter W.T., Storia del paesaggio..., op. cit.

Norberg-Schulz C., Genius Loci..., op. cit.

Schmiedt G., Il contributo della fotografia aerea alla ricostruzione dell’urbanistica della città italica ed Etrusca preromana. In Studi sulla città antica. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna: 1970.

Di Gennaro F., Il popolamento dell’Etruria Meridionale..., op. cit.

Moscati P., Nuove ricerche su Falerii Veteres. In La Civiltà del Falisci. Atti del XV Convegno di Studi Etruschi e Italici, Civita Castellana 28-31 maggio 1987. Firenze: 1990.

Potter W.T., Storia del paesaggio..., op. cit.

Fugazzola Delpino M.A., Le acque interne..., op. cit.

Ibidem.

Cataldi G., La viabilità dell’Alto Lazio..., op. cit.

Per una descrizione esauriente e dettagliata del sistema costruttivo delle vie cave nel territorio falisco: Quilici L., La cava buia di Fantibassi e le vie cave del territorio falisco, in: La Civiltà dei Falisci, atti del XV convegno di Studi Etruschi e Italici, Civita Castellana 28-31 maggio 1987. Firenze: 1990.

De Lucia Brolli, A.M., L’Agro Falisco…, op. cit.

“… loca opposita Etrurie e velut claustra inde portaeque” Livio 6, 9, 4.

In seguito a tale fronte Tarquinia conquisterà, nel 389 a.C. Sutri che venne poi subito ripresa dai romani. Morselli C., Sutrium. Firenze: 1980.

Pallottino M., Etruscologia. Milano: 1984.

Potter W.T., Storia del paesaggio…, op. cit.

Bonacelli R., La Natura e gli Etruschi. In “Studi Etruschi”, vol. II. Firenze: 1928 (ristampa 1967).

Non dobbiamo dimenticare il valore religioso del bosco che dalla cultura etrusca mutua in quella romana e persiste ancora a lungo nei riti, ma dal concetto di silva paurosa si trasforma in lucus, come quello di Feronia, grande santuario dove “... all’ombra del bosco sacro, garante la dea della sorgente, si riunivano nella festività periodica falisci e latini, etruschi, sabini e umbri...” Quilici L., Il Tevere a nord di Roma in età romana. In: Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo. Catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

De Lucia Brolli A.M., L’Agro…, op. cit.

Potter W.T., Storia del paesaggio…, op. cit.

Sereni E., Storia del paesaggio agrario…, op. cit.

Decumanus e cardo sono gli elementi costitutivi del paesaggio agrario romano, essi determinano una limitatio regolare spesso in centurie, quadrati di 710 m di lato equivalenti a 2700 piedi per una superficie di 50 Ha; o in strigae o scama se il lotto risulta rettangolare.

L’Etruria fornì a Roma, tramite la via di comunicazione del Tevere, numerosi aiuti durante le frequenti carestie del V secolo (492, 490, 440, 433 e 411 a.C.). “… ex Tuscis frumentum Tiberi venit” Livio, II, 34.

Il sistema di allevamento a ‘palo vivo’ (albereto gallico), chiamato anche ramputinum, consisteva nel sostenere i tralci di vite tramite dei sostegni, generalmente alberi, a differenza del sistema greco (alberello) dove la vite cresceva senza sostegno. Le piante utilizzate per il ‘palo vivo’ erano diverse, ma quelle consigliate dagli autori romani dovevano essere dotate di fogliame poco denso così da non togliere soleggiamento alla vite: opulus (acero campestre?), corniolo, carpino, orniello, salice, olmo, pioppo nero, frassino, fico, olivo, tiglio, acero e anche la quercia. Il sistema a ‘sostegno morto’ si basava sull’utilizzo di semplici pali (pedamenta) o da gioghi (iugatae): il sostegno a ‘palo’ poteva essere costituito da palanche, pali, canne; il giogo da pertiche, canne e corde. Bonacelli R., La Natura, op. cit.

Anche se la coltivazione del lino è citata da vari autori come Grazio Falisco “... et aprico Tuscorum stupea campo Messis, contiguum sorbens de flumine rorem, qua cultor Latii per opaca silentia Tibris Labitur, inque sinus magno venit ore marinos. At contra nostris imbellia lina Faliscis …” e Silio Italico IV, 223 “… indutosque simul gentilia lina Faliscos”, la produzione evidentemente non era di eccellenti qualità (... imbellia lina…) rispetto a produzioni di altre aree geografiche. Ciò anche perché il clima non si addice a questa pianta che richiede suoli alluvionali, limosi e profondi. Probabilmente tali colture si sviluppavano nei fondovalle più ampi come la foce del Treia e la valle del Tevere.

Sereni E., Storia del paesaggio…, op. cit.

Bonacelli R., La Natura, op. cit.

“La villa era per antonomasia un luogo ove riposare durante il tempo libero, o otium, che era il contrario di negotium, cioè attività o non riposo. Grande rilievo viene dato alla posizione e alle caratteristiche del luogo, importantissime per la riuscita del progetto: il mare e i monti, il tempo e i venti stagionali. Onde ottenere un certo effetto complessivo risultano quindi essenziali boschi, prati e vedute sia naturali che artefatte. Benché collocate in un sereno scenario rurale, queste residenze sono perfettamente attrezzate: non manca mai alcunché e la natura è stata per così dire organizzata da giardinieri e ingegneri idraulici. Il paesaggio è costellato di siepi e terrazze; i campi coltivati e gli orti, la gran quantità di legna da ardere e il bestiame da latte rendono quasi autonoma ogni villa...” MacDonald W.L., Pinto J.A., Villa Adriana. Milano: Electa, 1997.

“Non si tratta qui solo, si badi bene, di un processo di degradazione del paesaggio agrario, ma anche di una progressiva disgregazione delle sue forme più precise. Nel nuovo ordinamento interno della grande proprietà, del saltus signorile o imperiale, in effetti, con la preminenza che in esso vengono assumendo le attività dell’allevamento, il riconoscimento del diritto di pascolo dei coloni su tutte le terre del saltus stesso (jus pascendi) diviene un’esigenza produttiva, così come un’esigenza produttiva diviene il riconoscimento del loro diritto di semina sulle terre salde (jus serendi): da un regime e da un paesaggio di ‘campi chiusi’, così, già si rileva la tendenza al passaggio ad un regime di ‘campi aperti’, nel quale tutte le terre del saltus, appunto sono aperte, dopo il raccolto, al pascolo promiscuo delle greggi.” Sereni E., Storia del paesaggio…, op. cit.

Nell’Agro Falisco il 40% dei siti fu abbandonato nel 300 d.C. e il 50% alla fine del IV secolo. Potter W.T., Storia del paesaggio…, op. cit.

Per una descrizione del territorio attraversato dalla Via Flaminia nel tratto da Ponte Milvio a Ponte Felice nei pressi di Civita Castellana consultare: Messineo G., Carbonara A., Via Flaminia. Roma: 1993.

Per il percorso della Via Cassia, da Roma ai confini con la Toscana, vedere Cavallo D., Via Cassia Via Cimina. Roma: 1992; Martinori E., Via Cassia. Roma: 1930.

Non erano rare le pendenze in rettifilo di 12-13 gradi.

I miliari oltre che a segnare la distanza indicavano il nome del magistrato che aveva costruito o restaurato la strada e quello dell’imperatore sotto cui quell’opera era stata realizzata. Sulla Flaminia, nei pressi di Civita Castellana, il miliario di Costantino (miglio XXXV) testimonia come ancora nel IV secolo d.C. tale tratto stradale fosse di estrema importanza per Roma. Mennella G., Miliari tardo-romani sull’itinerario falisco della Flaminia. Faenza: 1988.

Il piede romano misura 29.56 cm ed è di derivazione greca, mentre quello precedente (pes oscus o italicus) era di 27.50 cm. Il piede si divideva in quattro palmi (7.39 cm); i multipli erano: cubito (1.5 piedi = 44.40 cm), passo (2.5 piedi = 74.00 cm), pertica (10 piedi = 296.00 cm) e il miglio (5000 piedi = 1478.00 m). Docci M., Maestri D., Il rilevamento architettonico. Roma-Bari: 1987.

Quilici L., Le strade. Viabilità tra Roma e Lazio. Roma: 1990.

Ibidem

In questi ultimi anni a seguito delle pionieristiche ricognizioni della British School di Roma, pubblicate nel 1957, e successivamente con gli scavi intrapresi nel 1983 dalla Soprintendenza archeologica per l’Etruria meridionale con la collaborazione del Gruppo archeologico romano, si sono susseguite numerose e valide pubblicazioni di carattere storico-topografico sul tracciato della Via Amerina. Per tali motivi il nostro approccio all’illustrazione del percorso si sforzerà di analizzare le qualità paesaggistiche della strada romana evitando, per quanto possibile, considerazioni di carattere storico archeologico. Per una approfondita ed esauriente descrizione della Via Amerina dal punto di vista storico archeologico vedere: Frederiksen M.W., Ward Perkins J.B., The ancient road systems of the central and northern Ager Faliscus. In “Papers of the British School at Rome”, XXVI, 1957. De Lucia Brolli M.A., La Via Amerina. In “Antiqua”, 5-6, (sett.-dic.), 1987. De Lucia Brolli M.A., L’Agro…, op. cit.

I resti della stazione di posta della mansio di Vacanas, citati dalla Tavola Peutingeriana, sono venuti alla luce nel 1979, in seguito a lavori connessi con l’ampliamento della SS 2 Cassia. Gli scavi hanno messo in evidenza alcuni ambienti riconosciuti come tabernae e un ambiente termale. Vedi Gazzetti G., Le campagne sistematiche di scavo nella Valle di Baccano. In “Antiqua”, nn. 5-6 (sett.-dic.), 1987.

L’appellativo di Amerina deriva dalla città romana di Ameria, meta terminale del tratto più conosciuto della strada, ma è controverso se in antico a tutto il percorso sia stato attribuito questo nome. Alcuni dati epigrafici citano una Via Annia posta in relazione a Falerii Novi. Gli stessi autori della Carta archeologica chiamano Via Amerina soltanto quella che esce dalla porta nord di Falerii Novi.

Nepi diviene colonia romana nel 383 a.C.

“Il suo percorso (Cassia) venne infatti scelto con estrema accortezza. Nonostante la miriade di corsi d’acqua che lambisce le pendici dei monti Sabatini, utilizza solo un ponte tra la Tomba di Nerone e Sutri, un’economia di sforzi che denota un’attenzione considerevole nell’attuazione del progetto...” Potter W. T., Storia del paesaggio…, op. cit.

Il tracciato della via è ricompreso nelle tavolette IGM 1:25.000 F°143 II N.E. Campagnano di Roma - F°143 I S.E. Nepi - F°143 I N.E. Civita Castellana -F° 137 II S.E. Gallese - F°137 II N.E. Orte - F° 137 I S.E. Amelia

Tratto individuato su carta IGM 1:25.000 foglio 143 II N.E. Campagnano di Roma.

Il ponte è tuttora in piedi anche se la sua fattura non sembra appartenere alla tipologia delle strutture di scavalcamento presenti più avanti lungo la strada. L’estradosso è pavimentato con selci ma le connessioni tra i blocchi lasciano dei dubbi sull’epoca di realizzazione.

“... In questo punto è riconoscibile nella sua integrità la struttura di questa via. È composta di un agger incurvato lievemente, largo m 2.75 e formato da selci di basalto palombino, poco cuneate, per lo più di forma pentagona irregolare e connesse con molta accuratezza. A ciascun lato della via stava un marciapiede rialzato cm10, largo circa 1.20, costruito a piccole pietre allungate ed a ciottoli messi per testa. Questo era diviso dalla via per mezzo di una crepidine di pietre rettangolari infisse nel terreno e di umboni arrotondati in cima e disposti l’uno di fronte all’altro alla distanza di circa m 4.50”. Gamurrini G.F., Cozza A., Pasqui A., Mengarelli R., Carta archeologica d’Italia (1881-1887). Materiali per l’Etruria e la Sabina. Firenze: 1972.

Ibidem

A Ponte Nepesino, l’Amerina si inoltra nella prima forra tufacea. Da qui si dipartiva, verso destra la strada per le acque termominerali. In questo luogo si percepisce l’‘ingresso’ attraverso l’Agro Falisco dove l’incontro tra il sistema geomorfologico dell’apparato vulcanico Sabatino con quello Vicano determina un brusco cambiamento del paesaggio.

Il crinale della Massa è uno dei luoghi paesaggisticamente più intensi di tutto il territorio falisco. Ricco di presenze storiche come i Cavoni, Grotta Arnaro, Castel d’Ischia, permette una penetrazione all’interno del sistema idrografico della valle del Treia con panoramiche di eccezionale importanza: la vista del pianoro di Nepi, l’insediamento monastico di Castel Sant’Elia o la lussureggiante valle del Cerreto con l’‘isola’ tufacea di Monte Merluzzo.

“... Da qui (Cantinaccia) fin presso il monumento sepolcrale in faccia a Nepi, cioè per circa un km, la Selciatella mantiene l’antica struttura. È un bellissimo tratto per metà saliente, conservato con le crepidini e gli umboni al posto ...” Gamurrini G.F., Cozza A., Pasqui A., Mengarelli R., Carta archeologica…, op. cit. Dobbiamo rilevare che parte della strada è andata distrutta con i lavori di sistemazione degli anni ‘50 come aveva, purtroppo, intuito Ward Perkins: “... Il giorno prima di scrivere queste parole abbiamo appreso che è stato approvato un progetto di riapertura dell’antica strada che andava da Settevene a Nepi, e che i lavori stanno per iniziare; è difficile credere che una quantità enorme di ciò che abbiamo documentato scomparirà tra breve per sempre.” Frederiksen M.W., Ward Perkins J.B., The ancient road…, op. cit.

L’ingresso attuale della strada attraverso porta Nica è uno dei luoghi più interessanti del percorso, sia nelle sue sequenze di avvicinamento che stazionando dal terrazzo che si apre sulla valle del fosso del Ponte. Non a caso numerosi pittori paesaggisti hanno ritratto queste visuali extra muros primo fra tutti Camille Corot. Per la ricerca artistica del Corot, effettuata negli anni venti dell’800 nell’Agro Falisco, vedere: Galassi P., Corot en Italie. Hong Kong: 1991.

Tratto individuato su carta IGM 1:25.000 foglio 143 I S.E. Nepi.

Da qui si diparte la strada di crinale che conduce nel sito falisco e altomedievale di Pizzo Iella.

Il ponte doveva essere ad un unica arcata. Per la tecnica costruttiva del ponte cfr nota 46.

Il sito è conosciuto anche come Isola Conversina o Torre Stroppa e nei documenti medievali come Castrum Insulae. Vedi Gamurrini G.F., Cozza A., Pasqui A., Mengarelli R., Carta archeologica…, op. cit. Frederiksen M.W., Ward Perkins J.B., The ancient road…, op. cit. Conti S., Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di S. Pietro. Firenze: 1980. Lucchesi E., Nepi, Filissano, Isola Conversina, Ponte Nepesino. Roma: 1984.

Secondo Ward Perkins la strada per scavalcare il fosso dell’Isola attraversava il suo affluente di destra per due volte. Attualmente non sono più visibili i resti delle due strutture a monte dell’ultimo ponte. Dal fosso dell’Isola il tracciato originario doveva salire in principio con una rampa ricavata nella parete tufacea oggi crollata.

“Il ponte sul rio dei Tre Ponti si può dire intatto: è il più bell’esempio di ponte romano in tutto il territorio falisco.” Gamurrini G.F., Cozza A., Pasqui A., Mengarelli R., Carta archeologica…, op. cit.. La struttura a vista è in opus quadratum bugnato con blocchi di tufo disposti con diatoni (conci posti di testa) alternati ad una fila di ortostati (conci posti per lunghezza) a rivestire la struttura interna in opus caementicium. Per una descrizione dettagliata vedere Frederiksen M.W., Ward Perkins J.B., The ancient road…, op. cit.

L’attraversamento del Rio Maggiore presenta un ‘addensamento’ straordinario di preesistenze archeologiche di epoca romana relative sia alle strutture viarie (basolato, ponte, tagliate) sia alle strutture funerarie (mausolei, tombe a camera, arcosoli, loculi, tombe a fossa, colombari). Il quadro paesaggistico si completa con una vegetazione di insolita varietà e qualità.

L’Amerina si avvaleva per l’attraversamento del torrente di un modesto ponte in opus quadratum con una luce di circa quattro metri, ancora in piedi nel 1887.

La forra del Rio Purgatorio è l’ultima prima dell’ingresso della strada a Falerii Novi e tra quelle attraversate è la più ampia (circa 200 m). Delle strutture del viadotto non restano che la spalla sud e tracce del suo ingresso sulla parete nord. Le condizioni morfologiche della zona devono aver dettato la direzione dell’attraversamento e in subordine, anche la struttura urbanistica della città. Bisogna considerare che la spalla nord del viadotto si avvale di uno sperone tufaceo che si protende in avanti. Proprio su questo asse si è impostato il cardo e quindi il foro di Falerii Novi. La zona è oggi profondamente modificata rispetto allo stato originario; sulle pareti della forra, sia a sud che a nord, sono imponenti le tracce delle operazioni di estrazione del materiale lapideo utilizzato per la costruzione delle mura.

Su Falerii Novi vedere Di Stefano Manzella I., Falerii Novi negli scavi degli anni 1821-1830. In “Rendiconti Pontificia accademia di archeologia”, XII, 2, 1979. De Lucia Brolli A. M., L’Agro…, op. cit. Per la descrizione paesaggistica del tratto entro la città cfr. paragrafo “Falerii Novi”.

La confluenza tra il fosso di Castellaccio e il suo affluente di destra dà vita al Rio Cruè, primo tributario diretto del Tevere. Al centro dei due corsi d’acqua sorge lo sperone tufaceo che ospita i resti di una struttura altomedievale e alla base di essa numerose sepolture ricavate sulle pareti.

Tratto individuato su carta IGM. foglio 143 I N.E. Civita Castellana.

Di rilevante interesse sono le due tombe rupestri a portico ricavate sulla parete nord della forra per la loro descrizione De Lucia Brolli A. M., L’Agro…, op. cit. A circa 600 m a valle della chiesa del tardo cinquecento di Santa Maria del Soccorso, il Rio Fratta era attraversato da un percorso di epoca falisca con le vie cave di S. Egidio e della Cannara. Quilici L., La cava buia di Fantibassi e le vie cave del territorio falisco. In: La Civiltà dei Falisci. Atti del XV convegno di Studi Etruschi e Italici. Civita Castellana 28-31 maggio 1987. Firenze: 1990. AA.VV., Contributi allo studio di fattibilità della direttrice viaria Civita Castellana-Viterbo. Viterbo: 1985.

Cerri G., Ferrara A., Grimaldi G., Casale Santa Bruna: un villaggio fortificato nei pressi della Via Amerina. In “Biblioteca e Società”, anno X, 3-4, (estratto). Viterbo: 1991.

Tratto individuato su carta IGM 1:25.000 foglio 137 II N.E. Orte.

Nardi G., Le antichità di Orte. Roma: 1980.

Seripola coincide, presumibilmente, con il Castellum Amerinum indicato nella Tabula Peuntingeriana. Il sito fu scoperto nel 1962-63 a seguito dei lavori per la realizzazione dell’autostrada del Sole ed esso consiste in un complesso portuale dotato di ambienti commerciali, magazzini, terme, abitazioni e tabernae. La sua frequentazione deve farsi risalire tra il II secolo a.C. e il V d.C. Begni Perina G., Il porto sul Tevere in località Seripola. In Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo. Catalogo della mostra 21 aprile-29 giugno 1986. Roma: 1986.

Nardi G., Le antichità…, op. cit.

La lunghezza della strada è storicamente attestata in 56 miglia secondo Cicerone che la percorse da Roma ad Amelia in una sola notte (Pro Rosc, VII,19). In effetti dal XXI miglio della Via Cassia, sommando le 36 miglia fino ad Amelia, si raggiunge la lunghezza totale di 57 miglia. Il che conferma il dato storico.

“La tradizione colta è rappresentata... dalla muratura in pietra squadrata, l’opus quadratum dei romani, cioè la muratura isodoma e pseudoisodoma che Vitruvio attribuisce ai costruttori greci. Questo è caratterizzato da due ordini di pietre: 1. gli ortostati, blocchi parallelepipedi posti con il loro lato più lungo nella direzione del muro (nella terminologia del secolo scorso questa posizione fu detta di fascia, o di fianco, o in grossezza); 2. i diatoni, blocchi parallelepipedi posti con la maggior lunghezza ortogonale al muro (in chiave o di punta o di testa). L’apparecchio dell’opus quadratum è a corsi o filari orizzontali. I giunti verticali sono sfalsati.” Giuffré A., Letture sulla Meccanica delle Murature Storiche. Roma: 1990. Vedi anche Marta R., Tecnica costruttiva romana. Roma: 1991.

Sulle tecniche costruttive dei ponti romani e la loro distribuzione nel territorio, si veda: Gazzola P., Ponti Romani. Firenze: 1963. Gamurrini G.F., Cozza A., Pasqui A., Mengarelli R., Carta archeologica…, op. cit. Frederiksen M.W., Ward Perkins J.B., The ancient road, op. cit. Cicognolo M.L., Ponti romani nell’Etruria Meridionale interna. In “Informazioni”, nuova serie, anno III, n. II, luglio-dicembre 1994.

L’area del Rio Maggiore negli ultimi anni è stata oggetto di una sistematica campagna di scavo ad opera dei volontari del Gruppo Archeologico Romano in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale che ha condotto a un approfondimento dei numerosi aspetti dell’area. Vedere in particolare: Caretta L., Via Amerina: complesso funerario romano con sepolcro a fregio dorico. In Archeologia della Tuscia II. Atti degli incontri di studio organizzati a Viterbo (1984). Quaderni del centro di studio per l’ Archeologia Etrusco-Italica, 13. Caretta L., Innocenti G., Prisco A., Rossi P., La necropoli della Via Amerina a Falerii Novi. In “Settlement and economy in Italy 1500 BC to AD 1500. Papers of the fith Conference of Italian Archaeology”, Oxford.

Gli scavi stratigrafici effettuati dal G.A.R. hanno messo in evidenza come il basolato più antico, in leucite, risalga al I sec. a.C., e successivamente siano stati operati degli interventi di reintegrazione con blocchi di basalto che interrompono la continuità dei solchi dei carri. Il primo strato di interro al di sopra della massicciata risale al II sec. d.C., mentre la frequentazione dell’area deve essere continuata almeno fino al IV secolo. Munzi M., Nuovi dati sulla Via Amerina e note prosopografiche sugli Egnatii di Falerii Novi. In “Archeologia Uomo Territorio”, 13, 1994. Innocenti G., Rossi P., La Via Amerina in località “Cavo degli Zucchi” (VT). Nuovi dati sulla frequentazione. In “Archeologia Uomo Territorio”, 14. 1995.

“Da una parte, un’azione progettuale intesa a costruire tramite il togliere e lo scavare, il cavare e l’estrarre, l’erodere e il sottrarre materia, un diminuire il volume per asporto (reale o fittizio che sia), sintetizzabile con il segno aritmetico del meno. Dall’altra, il comporre spazi per aggiunta, sovrapposizione, contrapposizione, distribuzione, legame, unione di elementi, membrature, apparecchi e materiali, un addizionare e un aumentare il volume per combinazione sapiente di parti, che potremmo sintetizzare con il segno aritmetico opposto del più.” Polano S., L’architettura della sottrazione. In “Casabella”, 659.

“Negli irrequieti vagabondaggi dell’uomo paleolitico, i morti furono i primi ad avere una dimora stabile: una caverna, una collinetta segnata da pietre o un tumulo collettivo. Erano questi i punti di riferimento a cui i viventi tornavano verosimilmente ogni tanto per comunicare con gli spiriti ancestrali o per placarli. Anche se la ricerca del cibo e la caccia non permettevano di occupare in permanenza una località, almeno i morti potevano aspirare a questo privilegio” Mumford L., La città nella storia, vol. I. Milano: 1990.

Potremmo individuare la tagliata come un iconema secondo la definizione di Turri: “Dando agli iconemi questo significato, cioè di elementi della percezione che si pongono come segni fondamentali del paesaggio, essi sono paragonabili ai fonemi, che sono i suoni elementari del discorso. Così intesi, gli iconemi sono come brani di paesaggio, parti significative di esso, parti e sineddoche del quadro percettivo d’insieme. Detto in altro modo, sono dei quadri minimi, elementari, che isolano una porzione di paesaggio, ne incorniciano un elemento rappresentativo, assumendo la funzione denotativa del contesto, di quelle unità di paesaggio ricercate ansiosamente dagli urbanisti e dai pianificatori”. Turri E., Il paesaggio…, op. cit.

Ore 11-12 solstizio d’inverno; ore 8-12 equinozi; ore 7-13 solstizio d’estate.

Ore 12-13 solstizio d’inverno; ore 13-16 equinozi; ore 13-17 solstizio d’estate.

Su Falerii Novi consultare: Di Stefano Manzella I., Falerii Novi negli scavi degli anni…, op. cit. De Lucia Brolli A.M., L’Agro Falisco..., op. cit.

La parte visibile degli scavi è stata portata alla luce negli anni 1969-75 in adiacenza all’incrocio tra il cardo e il decumano. Begni Perina G., Falerii Novi. In “Studi Etruschi”, vol. LI, (estratto). 1983, serie III.

Il perimetro è lungo circa 2400 m e rinforzato da 50 torri difensive. Tra le porte di maggiore interesse sono da ricordare Porta Giove ad ovest, tramite cui passa il decumano massimo che, proveniente dai monti Cimini, collegava la città con la Flaminia e con il Tevere ad est, e Porta Puteana a sud ovest, entrambe con decorazione antropomorfa del concio di chiave dell’arco a tutto sesto. De Lucia Brolli A.M., L’Agro…, op. cit.

Finocchi S., Significato dei rapporti tra cinta fortificata e piano negli insediamenti preromani. In Studi sulla città antica. Atti del convegno di studi sulla città Etrusca e Italica preromana. Bologna: 1970.

“Nel modello ecologico romano degli insediamenti umani la stretta interdipendenza tra l’urbs e l’annesso territorio che ne garantiva l’esistenza, dichiarava che il manufatto urbano era al centro di una civitas-civitatis (da cui civiltà e città) che era la condizione esistenziale, geoeconomica e politica nella quale il rapporto città/campagna sembra essere stato organico e non dicotomico”. Vercelloni V., Ecologia degli insediamenti umani. Milano: 1992.

Totila trovò la morte lungo la Flaminia a Gualdo Tadino (552) e Teia, a quest’ultimo succeduto a capo dei Goti, nel 553 per mano del generale bizantino Narsete.

La provincia dioclezianea Tuscia et Umbria, all’inizio del IV secolo fu divisa in due parti: Tuscia Annonaria e Tuscia Suburbicaria o Urbicaria. Con i bizantini l’Italia verrà ripartita in cinque provincie: Urbicaria (che comprende la Tuscia), Campania, Calabria, Annonaria e l’Apulia. A seguito dell’invasione longobarda la Tuscia si divise nuovamente in Tuscia longobarda e Tuscia bizantina. Bavant B., Le Duché byzantin de Rome, in “Melanges de l’Ecole Française de Rome”, 91, II, pag.49. Saxer V., La Tuscia nel Martiriologio geroniminiano: osservazioni sulla storia del Martiriologio e su quella della Tuscia. In Il Paleocristiano nella Tuscia, Viterbo 7-8 maggio 1983. Roma: 1984.

Alboino, re longobardo, entra in Italia dal Friuli nel 568.

Pepe G., Il medio evo barbarico d’Italia, Torino: 1959.

“... mentre alcuni nuclei di diffondevano in Italia settentrionale, altri dilagavano verso il sud... verso la Tuscia e verso Roma, conquistando Lucca e Chiusi, altri defluivano verso l’Emilia e, superato il passo del Furlo inoltrandosi per la via Flaminia, giungevano a Spoleto e, ancor più a sud, nel Sannio, sino a Benevento.” Capitani O., Storia dell’Italia medievale. Roma-Bari: Laterza, 1988.

“Dopo la sua morte (Clefi) e per un interregno di dieci anni, i Longobardi vissero sotto i duchi. Ognuno di questi ultimi infatti governava una città...” Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, libro II, 32.

Sorta di viceré nominato direttamente dal basileus di Costantinopoli, la sua prima menzione è del 584.

La Via Flaminia, nel tratto tra il Tevere e Luceoli, era saldamente in mano al duca di Spoleto.

Bavant B., Le Duché…, op. cit.

Fiocchi Nicolai V., I Cimiteri Paleocristiani del Lazio - I - Etruria Meridionale, Città del Vaticano, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, 1988.

Schmiedt G., Città e fortificazioni nei rilievi aereofotografici: le fortificazioni altomedievali. In Storia d’Italia. Torino: Einaudi, vol.V.

“Imboscate, distruzioni, tradimenti, schiavitù degli Italiani, tutto si concluse con una tregua tra Costantinopoli e il re langobardo nobilmente voluta da Gregorio e faticosamente attuata nel 598-599: che essa venisse rinnovata per qualche anno , poi rotta, poi di nuovo rinnovata è comprensibile trattandosi di due nemici uno più malfido dell’altro; l’importante fu di aver fatto delle orde langobardiche Stato patteggiante, e l’aver reso possibile un sistema di accordi, che portò ad un periodo di pace tra il 606 e il 616, quando morì Agiulfo”. Pepe G., Il medio evo barbarico d’Italia, op. cit.

“Quando i re langobardi, giunto il loro popolo a un più alto livello di civiltà che permetteva di pensare a una vera guerra di strategia e non di semplice impeto, comprendono l’immenso pericolo che costituisce per essi la strada da Roma a Ravenna in mano ai Bizantini, combatteranno accanitamente per conquistarla. Si può dire, però, che il primo a rendersi conto dell’importanza di questa strada fu Liutprando dopo quasi un secolo e mezzo di conquista.” Ibidem.

Per la descrizione di Orte e il territorio limitrofo in questo periodo vedere: Raspi Serra J., Laganara Fabiano C., Economia e territorio. Il Patrimonium Beati Petri nella Tuscia, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Napoli: 1987; Raspi Serra J., Vasanello - Palazzolo: un territorio ambito di lotta fra Romani e barbari, in: Romano Barbarica, 5, 1980, 191-222.

“... il pontefice poté, nell’incontro di Terni del 742, ottenere un’altra donazione del tipo di quella del 728, che “restituiva a San Pietro” Sutri: venivano date alla chiesa di Roma - sempre sotto forma di restituzione accompagnata da donazione - Bomarzo, Orte, Amelia, territori della Sabina e in Umbria, nonché nella Pentapoli. Donazione o restituzione a S. Pietro che questi atti si vogliano chiamare, rimane il dato di fatto che essi riguardavano terre dell’Impero e coinvolgevano sudditi dell’Impero, come sudditi della stessa Bisanzio erano quei prigionieri che vennero riconsegnati al papa, dopo essere stati presi nei territori della Pentapoli e dell’Esarcato, Zaccaria, autorizzato o meno che fosse, aveva agito da interlocutore protagonista, nei riguardi di Liutprando, senza che ormai fosse più questione di un qualsivoglia riguardo formale per l’autorità del basileus.” Capitani O., Storia dell’Italia medievale, op. cit.

Ottone III muore nel 1001, in fuga da Roma a seguito di una rivolta di nobili, a Castel Paterno, uno dei siti fortificati presenti lungo il corso del fiume Treia.

Fiore Cavaliere M.G., Viabilità del Tevere da Orte a Roma. In: Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo, catalogo della mostra 21 aprile - 29 giugno 1986. Roma: 1986.

Quattranni A., La selva difesa. In “Biblioteca e Società”, anno XIII, n. 4, 1994.

Statuti et reformanze della Communità di Civita Castellana. In Roma appresso li Heredi di Valerio e Luigi Dorici Fratelli, l’anno MDLXVI.

Cimarra L., Civita Castellana. Viterbo: 1988.

Zuppante A., Orte. Viterbo: 1987.

Ghera P., Cenni storici sul territorio della media Valle del Tevere dal XVI secolo ad oggi. In ”Quaderni dell’Istituto di Ricerca Urbanologica e Tecnica della Pianificazione”, 3, Facoltà di Architettura, Università di Roma, 1966.

Conti S., Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di S. Pietro. Firenze: 1980.

Ghera P., Cenni storici sul territorio…, op. cit.

Sereni E., Storia del paesaggio agrario italiano. op. cit. Per le vicende economiche di un sito nei pressi della via Amerina vedere Fedeli Bernardini F., La comunità di Mazzano e la Tenuta di Montegelato, in Amandolea B., Fedeli Bernardini F. (a cura di), Montegelato, Mazzano Romano - stratigrafia storica di un sito della Campagna Romana. Roma: Gangemi, 1998.

Petroselli F., La Tuscia del Seicento e del Settecento nei ricordi di viaggiatori svedesi. In “Biblioteca e Società”, anno II, n. 2, 1980.

Il collegamento viario tra Nepi e Civita Castellana avveniva per un tratto lungo l’Amerina, fino al superamento del Rio Maggiore, e poi per un percorso sul crinale tra il Rio Purgatorio e Rio Maggiore. La strada attraversava quest’ultimo torrente tramite il ponte di Terrano ed entrava in città per l’accesso costituito dal rivellino del Forte Borgiano.

Potter W.T., Storia del paesaggio…, op. cit.

Sono diversi gli insediamenti cristiani tra il IV e il V secolo soprattutto in funzione funeraria: presso la mansio Ad Baccanas con la chiesa martiriale di Sant’Alessandro; la catacomba nei pressi di Formello in località Monte Stallone; l’area funeraria nei pressi di Castel d’Ischia, sul fosso del Cerreto; i monasteri della Valle Suppentonia a Castel Sant’Elia; la chiesa paleocristiana di Monte Gelato. Per gli insediamenti paleocristiani in questo territorio vedere: Fiocchi Nicolai V., “Topografia cristiana” del territorio circostante “Mola di Monte Gelato” nella tarda antichità, pag.26-32, in Amandolea B., Fedeli Bernardini F., (a cura di), Montegelato, Mazzano Romano - stratigrafia storica di un sito della Campagna Romana. Roma: Gangemi, 1998; Fiocchi Nicolai V., I Cimiteri Paleocristiani…, op. cit.; Fiocchi Nicolai V., Le catacombe di S.Savinilla a Nepi. Città del Vaticano: 1992.

Sereni E., Storia del paesaggio agrario…, op. cit.

Marazzi F., “Patrimonium Tusciae” della Chiesa Romana tra VI e X secolo: note sulle pertinenze fondiarie. In Amandolea B., Fedeli Bernardini F. (a cura di), Montegelato, Mazzano Romano - stratigrafia storica di un sito della Campagna Romana. Roma: 1998.

Il Patrimonium Sancti Petri per il Lazio era diviso in sei parti: Patrimonium Urbanum, Patrimonium Appiae, Patrimonium Tusciae, Patrimonium Sabinense, Patrimonium Labicanum, Patrimonium Tiburtinum.

Litta E., Origini e formazione del territorio di Mazzano dal IV al XIII secolo, in Amandolea B., Fedeli Bernardini F. (a cura di), Montegelato, Mazzano Romano - stratigrafia storica di un sito della Campagna Romana. Roma: Gangemi, 1998.

Raspi Serra J., Insediamenti rupestri religiosi nella Tuscia. In “Mélanges de l’École Française de Rome, Moyen Age. Temps Modernes”, 88, 1976.

Gli insediamenti di Castel Sant’Elia o di San Selmo e San Cesareo a Civita Castellana.

AA.VV, Farfa, storia di una fabbrica abbaziale. Roma: 1985.

Su Santa Maria di Falleri vedere: Apollonj Ghetti B.M., L’architettura nella Tuscia. Roma: 1960; Bedini B., Faleri la sua storia, i suoi martiri, la sua chiesa. Civita Castellana: 1956; Fraccaro De Longhi M., L’architettura delle chiese cistercensi italiane. Milano: 1958; Mastrocola M., Il monachesimo nelle Diocesi di Civita Castellana, Orte e Gallese fino al secolo XIII. In “Miscellanea di Studi Viterbesi”. Viterbo: 1962; Valle A., La chiesa di S.Maria di Falleri. In “Rassegna d’Arte”. Milano: 1915; Raspi Serra J., La Tuscia Romana. Milano: 1972; Bianchini G., Fabrica di Roma dai Falisci ad oggi. Viterbo: 1982.

Bedini B., Faleri…, op. cit.

Rossi P., Civita Castellana e le chiese medievali del suo territorio. Roma: 1986.

Mastrocola M., Il monachesimo…, op. cit.

Ibidem.

“... alla base dei criteri di scelta di un insediamento era privilegiato quello legato alle caratteristiche del luogo che doveva consentire, insieme ad una vita monastica tranquilla, lontana dai centri abitati, lo svolgimento di un’attività prevalentemente agricola”. Righetti Tosti Croce M., Architettura monastica: gli edifici. Linee per una storia architettonica. In Dall’Eremo al Cenobio. Milano: 1987.

Romanini A.M., Monachesimo medievale e architettura monastica. In Dall’Eremo al Cenobio. Milano: 1987.

Raspi Serra J., La Tuscia…, op. cit.

Turri E., Il paesaggio come teatro, op. cit.

Mastrocola M., Il monachesimo…, op. cit.

Monasterium S..Mariae de Faldara pro I et II paga flor. de auro XVI, karlinos de auro XVIII, lib.XXIX, sol.XIII, den.VIII” Battelli G. (a cura di), Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Latium. Città del Vaticano: 1946.

Le domuscultae erano: Santa Cecilia sulla via Tiburtina; Capracorum nei pressi di Veio; Galeria sulla Via Aurelia; Galeria sulla Via Portuense; Calvisana sulla Via Ardeatina; Sant’Edisto sulla Via Ardeatina; San Leucio sulla Via Flaminia; Laurentina sulla via omonima; Antium sulla Via Nettunense; San Pietro in Formis sull’Appia antica; Sulpiciana sulla Via Appia. Conti S., Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di S. Pietro. Firenze: Olschki, 1980.

Tomassetti G., La Campagna Romana antica medievale e moderna, III. Roma: 1913.

Si estendeva fino a nord di Nepi con i siti di Campagnano, Calcata, Mazzano, Stabia, Porciano, Roncigliano e Montegelato. Sulla Mola di Montegelato vedere: Potter T.W., King A.C., Scavi a Mola di Monte Gelato presso Mazzano Romano, Etruria Meridionale, primo rapporto preliminare, “Archeologia Medievale”, XV, 1988; Marazzi F., Potter T.W., King A., Mola di Monte Gelato (Mazzano Romano - VT): notizie preliminari sulle campagne di scavo 1986-1988 e considerazioni sulle origini dell’incastellamento in Etruria Meridionale alla luce dei nuovi dati archeologici, “Archeologia Medievale”, XVI, 1989; Amandolea B., Fedeli Bernardini F. (a cura di), Montegelato, Mazzano Romano - stratigrafia storica di un sito della Campagna Romana. Roma: Gangemi, 1998.

I bovini erano utilizzati esclusivamente per i lavori agricoli e la loro carne veniva consumata soltanto in quanto non più abili al lavoro. La macellazione del maiale si effettuava fra il primo e il secondo anno di vita, ma anche nel terzo e quarto, in quanto l’allevamento brado, con una crescita lenta degli animali, raramente li faceva raggiungere i 70 kg di peso. Dentici Buccellato R.M., La civiltà dell’aratro e del mulino, in Cherubini G., a cura, Uomini, terre e città nel medioevo. Milano: 1986.

Litta E., Origini e formazione…, op. cit.

“I vari potentati militari che operavano nell’ex ducato bizantino di Roma, sia in connessione alle piazzeforti di difesa del limes longobardo, sia nell’Urbe stessa, utilizzando le loro qualifiche all’interno del vecchio ordinamento imperiale per giustificare il controllo politico che di fatto detenevano su porzioni del territorio del ducato stesso. E tentano di predominare in Roma per accrescere la propria influenza sull’unica autorità - il papato - in grado di porsi al di sopra delle altre per prestigio e ricchezza.” Potter T.W., King A.C., Scavi a Mola di Monte Gelato…, op. cit.

Il territorio, dall’846, con lo sbarco ad Ostia dei Saraceni, fu soggetto, fino al 915, alle scorrerie delle loro bande, allorché queste furono sconfitte nei pressi di Baccano da milizie locali.

Il Castrum ha la sua origine tardoromana-bizantina in quanto forma insediativa idonea alla difesa delle zone di confine, forma adottata anche dai longobardi, che ebbe successivamente un ruolo fondamentale nella riorganizzazione territoriale dell’area della via Amerina. Raspi Serra J., Laganara Fabiano C., Economia e territorio..., op. cit.

La massa è un insieme di fondi riuniti amministrativamente che prendono il nome da un proprietario o da una località. Essa diede vita a vari centri: è del 727 la menzione di Massae Castellanae Patrimonii Tusciae dove compare per la prima volta il futuro nucleo di Civita Castellana. Cimarra L., Civita Castellana…, op. cit. Raspi Serra J., Laganara Fabiano C., Economia e territorio..., op. cit.

Il termine casalis comprendeva non un unico edificio, nell’accezione moderna, ma un insieme di strutture composto dalla casa, dall’orto, dai campi, vigneti e bosco. Esso poteva abbracciare anche più fondi. Raspi Serra J., Laganara Fabiano C., Economia e territorio…, op. cit.

Turri E., Il paesaggio come teatro, op. cit.

Piccinato L., Urbanistica medievale. Bari: 1993.

Del sito si hanno notizie fin dal 989 quando il castrum era in locazione al monastero dei SS. Cosma e Damiano, è annoverato come feudo nepesino con il nome di Castrum Insula Conversina, nel 1427 era già abbandonato. Conti S., Le sedi umane abbandonate nel Patrimonio di S. Pietro. Firenze: 1980.

Su Castel Porciano vedere: Mallet M., Whitehouse D., Castel Porciano:and abandoned medieval village of the roman campagna. In: “Paper of the British School at Rome”, XXXV. London: 1967g.114-146; su Ponte Nepesino: Potter T.W., Whitehouse D.B., Il Castello di Ponte Nepesino e il confine settentrionale di Ducato di Roma, “Archeologia Medievale”, XI, 1984.

“Civita Castellana è situata dalla natura che senza muri cavalieri o baluardi e senza altra spesa resta quasi da ogni parte inespugnabile e si gagliarda che il popolo solo ancor che sia poco la difenderebbe da ogni esercito saria che con poca fatica le chiuderia la via donde potrebbe entrar vitovaglie e spie di maniera che chi la volesse difendere longo tempo bisognaria che fossi fornita da se di vetovaglie e di ogni altro bisognio. Ha molini e altri edifizi su le aque che la circondano ne li fondi di li valloni che lo sono intorno. li quali dalli nimici non si leverebbero senza gran fatica e notabile danno: è logo come me è referito che sempre è ben munito di grano: si perché il territorio suo è grasso come ancora che li omini hanno gran comodità di conservarlo 4 o 5 anni e più nelle buche. le quali sono di una natura di tufo asciutto e facile da essere cavato. La parte di la roccha è la più debole che vi sia ... La fortezza è onestamente forte e non ha parte alcuna che non aspettasse mille cannonate: ha dentro un bon palazzo per alloggiarvi il pontefice e sua casa comodamente; e merita che ne sia tenuto conto e conservato. Resta questo palazzo congiunto con un torrone che viene ad esser la roccha di questa fortezza: e custodito che sia questo, si conserva sotto sua ombra tutta la fortezza,” Marconi P. (a cura di), Visita e progetti di miglior difesa in varie fortezze ed altri luoghi dello Stato Pontificio. Trascrizione di un manoscritto inedito di Francesco Laparelli architetto cortonese (1521-1570). Cortona: 1970.

“... il discorso compositivo si interrompe e sconnette; le masse edilizie non serbano relazione alcuna con le preesistenti, si disperdono in tutte le direzioni in forme incoerenti e abuliche; si giustappongono con le maggiori altezze alla scena urbana...” Marconi Plinio, Il territorio della media Valle del Tevere. In “Quaderni dell’Istituto di Ricerca Urbanologica e Tecnica della Pianificazione”, 3, Facoltà di Architettura, Università di Roma, 1966.

Dennis G., Itinerari etruschi (a cura di), Castagnoli M. Da The Cities and Cimiteries of Etruria. Roma: 1984.

Sotto l’egemonia francese, l’Italia Repubblicana si divideva in: Repubblica cisalpina, Repubblica ligure, Repubblica romana e Repubblica partenopea.

“Anche prima dell’invasione dei repubblicani la città (Civita Castellana) era oberata da un debito di 80.000 scudi: a cui si devono aggiungere ora i 50.000 spesi per i francesi ed i 14.000 spesi per i tedeschi, senza contare il mantenimento delle truppe napoletane, aretine e degli altri paesi, per comprendere il vertiginoso buco finanziario in cui ora essa si trova coinvolta” Craba M.G., Civita Castellana 1789-1815. Dalla rivoluzione francese alla restaurazione pontificia: grandezze e miserie di una comunità agli albori del suo processo industriale. Civita Castellana: ed. Biblioteca Comunale, 1994.

Gli agricoltori “ ... erano obbligati a vendere il grano, granturco ed altri prodotti simili alla pubblica Annona ad un prezzo così basso che spesso non copriva le spese di produzione, determinando una drastica riduzione delle terre coltivate a grano nella Campagna Romana e in tutto lo Stato Pontificio.” Goletti A., La situazione agricola nello Stato Pontificio nel XIX secolo. In “Biblioteca e Società”, VII-VIII. 1985-86.

Il rubbio era una unità di misura superficiale pari a circa 18.484 mq. L’unità di misura base era lo stajolo (1,65 mq.), 175 stajoli davano un quartuccio (circa 288,82 mq.), quattro quartucci uno scorzo (1155,27 mq.), quattro scorzi una quarta (4.621 mq.), quattro quarte un rubbio. Calindri G., Saggio statistico storico del Pontificio Stato compilato dall’ingegnere di Perugia Gabrielle Calindri, Perugia: 1829.

Goletti A., La situazione agricola…, op. cit.

Bartolini C., Brigantaggio nello Stato pontificio, 1897. Ristampa anastatica: 1979. Mattei A., Brigantaggio sommerso. 1981.

Vecchio B., Il bosco negli scrittori italiani del settecento e dell’età napoleonica. Torino: 1974.

Nel rilievo del 1744 degli ingegneri A. Chiesa e B. Gambarini il numero dei porti ed attraversamenti fluviali è di 18 tra cui spiccano: la Barca di S. Lucia ad Orte; il porto dell’Olio, presso Otricoli; la Barca di Gallese; la Barca di Civita Castellana nei pressi di Goliano. Fiore Cavaliere M.G., Viabilità del Tevere da Orte a Roma - Tradizione di commercio. In Il Tevere un’antica via per il Mediterraneo, catalogo della mostra 21 aprile - 29 giugno 1986. Roma: 1986

“Per tutto il XVIII secolo, il genere che primeggia in linea assoluta, sia per quantità sia per varietà, è il legname. Dei navicelli che giungono a Ripetta il 50-60% appaiono carichi di legna. Si tratta di materiale svariatissimo: legna da ardere, fascine da forno, ciocchi, marmaglia, al quale si affianca spesso il carbone. Il legname più o meno lavorato, invece come doghe, stanghe, tavoloni, travi, travoni, travoncelli, piane, pianette, regoli, aste, tramezzi e passoni di castagno, abete, faggio, olmo, pioppo, ontano, quercia, leccio e noce, appare registrato fra le merci varie”. Mira G., Note sui trasporti fluviali nell’economia dello Stato Pontificio nel XVIII secolo.

Ibidem.

Bisogna tenere conto che le merci caricate a Ponte Felice, in quanto confluenza con la Via Flaminia, venivano anche da altre parti, ad esempio dall’Umbria e dalle Marche.

La cattiva navigazione era dovuta dall’ingombro delle ripe e dalle difficoltà per risalire il fiume con i barconi: Pio VII con Chirografo del 17 ottobre 1804 tentava di introdurre il tiro delle imbarcazioni, da Ripetta ad Orte, a mezzo dei bufali in sostituzione del tiro a braccio effettuato dagli uomini.

Milella M., I Papi e l’agricoltura nei domini della S. Sede. Roma: 1880.

Circa 2665 rubbia pari a circa 5000 ettari.

Le bandite erano terreni con proprietà d’uso del pascolo di parte pubblica, il comune affittava annualmente, tramite banditore, il pascolo dall’8 maggio al 29 settembre.

Terreni dove i buoi avevano la possibilità di pascolare liberamente dall’8 settembre all’1 dicembre.

Sono pascoli utilizzati da chiunque su terreni di altri proprietari da marzo ad ottobre, venivano anche detti querciati.

Vecchio B., Il bosco negli scrittori…,op. cit.; Sansa R., Interessi privati e bene pubblico. Le vicende di un tentativo di pianificazione dello sfruttamento forestale nell’area dell’alto Lazio nel XIX secolo. In “Rivista Storica del Lazio”, anno IV, 4, 1996.

“1. Chiudere un campo aperto con siepe viva, muraglia o staccionata, secondo i sistemi agrari o munita del laterale suo fosso di scolo. 2. Nettare un terreno qualunque dall’ingombro de’ sassi e macigni, rendendolo più regolare e più livellato nella sua superficie. 3. Sterpare e ridurre a buon pascolo, a prato od a seminativo un terreno per lo innanzi ingombro di roveri e felci. 4. Prosciugare e disseccare i terreni paludosi, col divergere, mercé di ben intesi canali e scoli, le acque stagnanti e sovrabbondanti alla coltivazione, facendole defluire ne’ fossi e ne’ rivi esistenti sul territorio. 5. Ridurre a bosco da frutto ed a regolare bosco ceduo una estensione di pascolo cespugliato poco produttivo, svellendo le piante parassite e inutili, e governando le querce e gli alberi boschivi col turno ordinario del taglio, e colla necessaria vangatura. 6. Effettuare il piantamento di una vigna secondo il metodo usitato in Roma, od altro piantamento vitato a filoni o ad albereti di aceri, ovvero olmi simmetricamente disposti. 7. Formare il piantamento di un oliveto disposto a bosco, ed in regolari filoni. 8. Vestire un terreno con mori gelsi, o con qualunque specie di alberi che più si adattano al clima ed alla qualità del suolo. 9. Ciascuna di queste operazioni, e ciascuna di queste coltivazioni, potrà essere considerata come un reale miglioramento di un fondo, e quindi meritare la concessione di essere ristretto e dichiarato libero, previa sempre la chiusura di esso con uno de’ mezzi sopraindicati. 10°. I modi che meritano la preferenza sono lo sterpamento ed il prosciugamento dei terreni: appresso il miglioramento dei prati naturali, e la introduzione di quelli artificiali in seguito la coltivazione de’cereali con più perfetto sistema di avvicendamento; e finalmente fra le arborature il piantamento degli olivi, o de’ gelsi.” Milella M., I Papi e…, op. cit.

Il termine cesa definisce una terra ingombra di cespugli che vengono tagliati in alcuni periodi o bruciati per seminarvi il grano o piantarvi alberi da frutta.

Wharton E., Paesaggi italiani, a cura di Brilli A. Milano: 1995.

La produzione nel viterbese del tabacco perustitza occupava, nel 1968, il primo posto nel Lazio con una superficie di circa 600 ha pari all’80% della produzione regionale e il 20% di quella nazionale. Nel 1939 la produzione occupava 1 ha; nel 1946 occupava 105 ha, nel 1959 occupava 750 ettari. Giancane F., La coltivazione del perustitza nella Provincia di Viterbo. Viterbo: 1969.

Nel Viterbese, oltre che nei comuni citati, la coltivazione si conduceva anche nelle aree di Viterbo, Tuscania, Vetralla e Bomarzo.

La raccolta del prodotto iniziava alla fine di giugno, le foglie, dopo la raccolta, venivano infilate tramite lunghi aghi e sistemate in filze, sorta di collane, poste poi su telai ad essiccare.

Romano Alfredo, I Leccesi a Civita Castellana: storia di una minoranza. In “L’Informatore Civitonico”, n.13, dicembre 1983 (Sezione Locale Biblioteca).

La densità di piante per ettaro era di 335, quindi circa 3.5 milioni di piante. Floridi V., Recenti sviluppi della corilicoltura nel viterbese. Estratto da Bollettino della Società Geografica Italiana, 4-6, 1976.

La densità degli impianti di nocciolo nei territori attraversati dalla Via Amerina, rispetto alla superficie agricola utilizzata, era nel 1973, per i seguenti comuni: dell’1-10 % Nepi e Civita Castellana, 41-50% Fabrica di Roma, 31-40% Corchiano, 11-20% Gallese, 21-30% Vasanello, 1% Orte.

Il sistema di allevamento è a policaule con sesto di impianto quadrato di 4-6 metri per 4-6 metri.

Secchi B., Toscana felix. In “Casabella”, 536, 1987.

La macèra è la recinzione storica tipica della zona tufacea compresa tra Nepi, Castel S. Elia e Civita Castellana. Essa di compone di grandi blocchi di tufo (detti bolognini) lunghi da 80-100 cm e spessi 50 cm, cavati a mano e murati a secco. L’uso delle macère si interrompe intorno agli anni ‘50 del nostro secolo, per l’introduzione della meccanizzazione all’interno del processo di estrazione del materiale.

Grillotti Di Giacomo M.G., Di Carlo P., Moretti L., La struttura delle aziende agrarie come base per la individuazione di aree agricole funzionali. Il caso del Lazio. Roma: 1985.

Nel 1985 nella zone di Orte i seminativi, i pascoli e i boschi raggiungevano rispettivamente il 44%, l’11% e il 26% della superficie agricola utilizzata. Ibidem.

L’analisi del ‘paesaggio sonoro’ è stata condotta, all’interno del corso, da Fabio Galadini.

E. Turri, Il paesaggio come teatro, op. cit.