di Valeria Della Valle
Potrebbe sembrare una coincidenza, ma è molto probabile che non lo sia. Difficile infatti attribuire a un caso il fatto che tre autori di formazione e interessi tanto diversi come Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio e Gustavo Zagrebelsky abbiano deciso, quasi in contemporanea, e sicuramente l’uno all’insaputa dell’altro, di rivolgere le loro attenzioni a espressioni, parole, frasi che rischiano, per ripetitività e stereotipia, di trasformare i nostri discorsi, e non solo quelli, in un bla bla bla ipnotico privo di senso.
Non se ne puo’ più. Il libro dei tormentoni (Mondadori, pp. 257, euro 17) di Stefano Bartezzaghi, conoscitore dei misteri dell’enigmistica e osservatore attento dei tranelli e degli inganni della nostra lingua, esprime fin dal titolo l’insofferenza e il fastidio per il «tormentone». Per spiegarne la nascita e il proliferare inarrestabile, Bartezzaghi ha ricostruito la storia, spesso divertente, talvolta allarmante, di questa «petite phrase che si fa riconoscere nel grande magma polifonico della chiacchiera nazionale». Bartezzaghi non si limita a elencare esempi di tormentoni raccolti anche grazie alle segnalazioni dei suoi fedeli lettori: li cataloga, li analizza, li infilza con lo spillone del classificatore, per osservarli meglio.
Da «come dire» a «non me ne può fregare di meno», da «a trecentossessanta gradi» a «e quant’altro» e via dicendo, Bartezzaghi perlustra la rassegna aggiornata delle espressioni ripetitive e logore più comuni: alle quali i francesi hanno dato l’etichetta di langue de bois, «lingua di legno», e che la studiosa della lingua italiana Ornella Castellani Pollidori definì anni fa «lingua di plastica». Di plastica, e con le stesse caratteristiche della plastica: materiale inerte, scadente, purtroppo indistruttibile e altamente inquinante.
Punteggiatura enfatica
Bartezzaghi non raccoglie solo gli scarti che affiorano in superficie (di raccolte di questo genere ne esistono già altre, basti pensare a È un problema tuo, di Filippo La Porta, uscito nel 2009 per Gaffi), ma estende la sua analisi alla lingua scritta e ai segni grafici di moda, a loro volta trasformati in segni che tormentano: dalle virgolette al punto esclamativo, dai puntini di sospensione fino agli emoticon. Rispetto al cui dilagare Bartezzaghi avanza l’ipotesi suggestiva secondo la quale chi ne fa uso (alzi la mano chi non ha mai decorato i propri messaggi con sfilze di punti esclamativi, con abbuffate di puntini o con faccine sorridenti) lo fa perché ha l’impressione «di essere deprivato (rispetto a ciò che potrebbe comunicare parlando) di una quantità di risorse: il tono della voce, il gesto, la sottolineatura umoristica, l’ammicco, quella teatralità dell’espressione verbale che rende ogni nostra conversazione informale uno sketch capace di esibire la nostra simpatia».
Dal tormento della punteggiatura enfatica al tormento dei linguaggi dei social network il passo è breve, perché secondo Bartezzaghi «chi vuole sapere qual è lo stato della lingua, delle scritture neoespressive, delle mentalità condivise, delle trasgressioni di massa in Italia non ha che da scaricare, per esempio, liste di nomi di gruppi-facebook». Insomma, la Rete e i motori di ricerca sono a loro volta macchine che producono e propagano tormentoni. Rispetto ai quali, certo, la sopportazione varia da individuo a individuo: c’è chi prova un brivido sentendo pronunciare continuamente l’aggettivo «intrigante»; chi sussulta ogni volta che l’aggettivo «importante» è usato con riferimento a prezzi, prodotti, servizi, epidemie, eventi; chi detesta «valido»; chi aggiungerebbe all’elenco bartezzaghiano quel «solare» che si attribuisce, chissà perché, soprattutto a chi è morto, meglio se in modo tragico; chi vorrebbe mandare a quel paese le persone che salutano con un «salve» transgenerazionale.
Antidoti all’omologazione
Tutto è soggetto alle mode, al gusto, alle idiosincrasie personali. In anni ormai lontani, invece di dire «arrivederci» tutti o quasi tutti dicevano «olive dolci», pronunciato alla Stanlio e Ollio. Quel tormentone è ricordato, quasi con nostalgia, da chi oggi ascolta con fastidio il plastificato e immancabile «Buona giornata» che attraverso il doppiaggio di film e telefilm ha sostituito i neutri e normali «Buongiorno» e «Arrivederci».
Ma allora, possiamo chiederci con Bartezzaghi, il tormentone è storia di sempre, o è una caratteristica del tempo attuale? Il tormentone si è evoluto, risponde l’autore del libro, si è trasformato, è diventato strategia, ci circonda da ogni parte, lo cercano e lo vogliono imporre proprio tutti: le banche, i premier, i calciatori, i quotidiani d’opinione: «E allora?» si chiede il lettore quando si accorge di essere arrivato all’ultima pagina del libro, nella speranza di riuscire a scoprire gli antidoti contro l’epidemia tormentonica. Allora – suggerisce l’autore – «se le armi del tormentone sono la ripetizione e l’ipnosi, allora potremmo provare a stare svegli, e variare».
Logore parole d’ordine
Ha molto a che fare con questo invito La manomissione delle parole (Rizzoli, pp.191, euro 13) di Gianrico Carofiglio, scritto partendo dall’idea che «le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli», e che «è necessario smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti. E dopo bisogna montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non significati». Carofiglio, con la sua meditazione sullo stato di salute delle parole, si concentra sulla lingua del potere e della sopraffazione. Dai tormentoni osservati in modo sorridente da Stefano Bartezzaghi sprofondiamo lentamente, nelle pagine del creatore dell’avvocato Guido Guerrieri, nell’elencazione degli slogan volgari, delle metafore grossolane, delle parole d’ordine svincolate dai significati. Peccato, però, che queste parole d’ordine non siano prerogativa di una certa destra e della sua propaganda.
Dal «partito dell’amore» ideato da Berlusconi, alle «parole d’ordine della sinistra», siamo di fronte a espressioni «svuotate del loro significato e ripetute come meri, meccanici slogan … Parole d’ordine meccaniche e segrete che non trasmettono nulla (men che meno valori ed emozioni) e non includono nessuno». Carofiglio individua nello svuotamento di senso di queste e altre locuzioni e nel furto di parole fondamentali come «democrazia», «libertà», «amore», la manomissione più grave. Per questo lo scrittore ha deciso di restituire un senso a quelle che ritiene più importanti («vergogna», «giustizia», «ribellione», «bellezza», «scelta»), attraverso l’analisi e la riappropriazione del loro significato, denunciando per ognuna di esse i fenomeni di manopolazione ai quali sono state sottoposte. «Ma allora?» potrebbe chiedersi anche questa volta il lettore, dopo aver assistito al gioco di smontaggio e rimontaggio delle parole da parte di Carofiglio: la risposta dell’autore è che bisogna scegliere. Scegliere di restituire senso, dignità e vita alle parole. L’antidoto – secondo Carofiglio – è rappresentato proprio dalla scelta, dalla capacità dell’individuo di non lasciarsi trascinare nei luoghi comuni acriticamente accettati e nella ripetizione passiva di parole vuote, soprattutto quelle della politica.
Sulla strada del pensiero unico
Anche Gustavo Zagrebelsky, nella sua riflessione Sulla lingua del tempo presente (Einaudi, pp. 58, euro 8), osserva i fenomeni più allarmanti dell’omologazione linguistica, soffermandosi su quelli che gli sembrano i più pericolosi. Tanto più pericolosi quando contaminano la vita civile: la contaminazione avviene attraverso parole che si insinuano subdolamente nella vita e nella coscienza dei cittadini, spingendoli sulla strada del pensiero unico. Proprio per questo il giurista si è assunto il compito civile di osservare e analizzare alcune delle espressioni più ripetute, svelando i meccanismi mistificatori nascosti nel lessico della propaganda politica.
Per farlo Zagrebelsky passa in rassegna le principali parole chiave della Lingua Nostrae Aetatis, la lingua del nostro tempo, per la quale ha creato l’acronimo LNAe. Nella LNAe, dunque, «si nota la presenza sovrabbondante del lessico di Berlusconi, dei suoi uomini, e dei loro mezzi di comunicazione di massa, che parlano come lui». Parlano, purtroppo, servendosi di «parole ed espressioni che sono ormai comuni, che piacciono a destra come a sinistra, che perciò sono adottate da tutti».
La rassegna prende il via da quello «scendere in politica» di tono salvifico e provvidenziale che ha finito per entrare nella mente di tutti, in base a un «contratto» mistico stipulato dal premier con gli italiani per «amore», per portar loro «doni». Ma questa – osserva Zagrebelsky – è una lingua vuota, una lingua fatta di pura retorica, un lessico che per il suo seduttivo aspetto esteriore finisce per avvelenare e corrompere.
Una logica aziendalista
Attraverso questo linguaggio i cittadini vengono tenuti sotto ricatto proprio con le parole. Parole in origine neutrali che finiscono per entrare a far parte di un lessico dell’ostilità: «italiani», per esempio è parola che apparentemente evoca unione e fratellanza, ma viene pronunciata sempre più spesso in contesti che le attribuiscono un sottinteso polemico nei confronti di chi, essendo anti-berlusconiano, viene automaticamente additato come «anti-italiano». L’accettazione passiva di locuzioni entrate nell’uso comune può avere conseguenze gravi, e non solo linguisticamente.
Zagrebelsky porta come esempio, nel suo elenco, l’espressione «Seconda Repubblica», con la quale s’intende negare legittimità a quanti provengono dalla prima: è poco comprensibile, a suo avviso, «che le vittime di questa operazione l’abbiano lasciata fare, senza cercare di distinguere le responsabilità, senza chiamare in corresponsabilità e senza quindi chiarire i caratteri profondi di continuità che legano il dopo al prima». Non solo: la lingua che ci sovrasta, diffusa dai circuiti della comunicazione, diffonde locuzioni come «azienda Italia», «fare squadra», «fare sistema», «risorse umane», «sinergie», in base a una logica aziendalista che fa dell’efficienza l’esigenza principale.
Nel rivelare gli inganni e le mistificazioni del linguaggio stereotipato della politica, tornano, osservate in un’ottica diversa, alcune delle espressioni segnalate anche da Bartezzaghi: dal citato «scendere in campo» al categorico «assolutamente», fino alla ripetizione ossessiva di «senza se e senza ma» (probabile calco del tedesco ohne Wenn und Aber). Secondo Zagrebelsky il linguaggio acriticamente accettato finisce per contagiare, per creare assuefazione. Non si può che essere d’accordo: tutti stiamo finendo per accettare il dileggio, l’aggressione verbale, la scurrilità, un linguaggio volgare e offensivo che viene considerato «politicamente corretto».
L’orgoglio della diversità
Come s’è detto, per una coincidenza che coincidenza non è, le stesse parole, le stesse espressioni, osservate da ottiche diverse, circolano e si rincorrono nelle pagine dei tre libri e finiscono per rappresentare, tutte insieme, un dizionario dei luoghi comuni che rischiano di creare assuefazione e dipendenza: possiamo sorriderne, possiamo considerarli parole vuote, stucchevoli riempitivi con funzione di appoggio nella costruzione sintattica, utili per cercare la parola che manca, per prendere fiato, per programmare la frase, come fossero «stampelle» d’appoggio, o possiamo considerarlo un fenomeno di scadimento e banalizzazione che è presente da tempo in tutte le lingue, contro il quale c’è poco da fare.
Oppure possiamo tentare di reagire: stando svegli, come suggerisce Bartezzaghi; variando, facendo scelte, come implora Carofiglio; o, come scrive Zagrebelsky «ritrovando l’orgoglio di parlare diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti». Perché dei tormentoni della lingua del tempo presente e della manomissione delle parole, e in questo siamo tutti d’accordo, non se ne può davvero più.