NewsLetter di Medicina e Psicologia - 2021 - Giugno
Informazione e disinformazione in era pandemica. Il ruolo della comunicazione nell’esitanza vaccinale
di Renata Metastasio
Nessuno di noi sa tutto; ognuno di noi sa qualcosa; possiamo mettere insieme i pezzi se uniamo le nostre conoscenze e capacità (Jenkins, 2007, p. XXVI)
Malgrado il ruolo universalmente riconosciuto alla vaccinazione nel controllo della pandemia e nella possibilità di ripresa della “normalità” pre-covid, la resistenza alla vaccinazione (vaccine hesitancy) è presente in una percentuale stimata intorno al 30% nei paesi occidentali.
L’esitanza vaccinale è un fenomeno complesso, con radici antiche che toccano molteplici aspetti, in primis la fiducia negli organismi scientifici, nelle grandi industrie farmaceutiche e nella comunicazione istituzionale.
Questa consapevolezza ha portato i diversi Paesi a intraprendere iniziative, alcune anche bizzarre, che incentivassero la popolazione a vaccinarsi. In Cina, la terza popolazione al mondo per accettazione del vaccino (si dice «fiducioso» il 91,3% degli interpellati da un recente studio di Vaccines), gli anziani che si sottopongono all’iniezione nella periferia di Pechino ricevono due scatole di uova fresche, e in tutto il Paese ci sono sconti su gelati e consumazioni dolci. In India, prima della seconda letale ondata, gli incentivi erano ricchissimi: orecchini, tappeti, cene al ristorante. In diversi Stati USA sono state messe in palio, tramite lotteria, vincite e borse di studio universitarie, ma anche birre, carte prepagate e aumenti in busta paga.
Le paure relative ai vaccini esistono sin dalla scoperta di Edward Jenner in Inghilterra, all’inizio dell’Ottocento, del vaccino contro il vaiolo, che, al tempo, hanno suscitato proteste e critiche in molti ambiti, come quello religioso, che non approvavano l’idea “anticristiana” di iniettarsi qualcosa di origine animale.
Le prime associazioni antivacciniste nascono a metà del XIX secolo, quando alcuni paesi occidentali istituiscono l’obbligo per i bambini fino a tre mesi di vita di vaccinarsi. Venendo ai nostri giorni, negli anni 2000 si è poi progressivamente affermato il movimento nato con Andrew Wakefield, che ha sostenuto in uno studio del 1998 (poi ritirato e smentito) la correlazione tra il vaccino trivalente MPR (Morbillo-Parotite-Rosolia e l’insorgenza di sindromi autistiche.
La disinformazione sui vaccini ha creato e crea molti problemi a livello sanitario, tanto che, nel 2017, il calo significativo di coperture vaccinali in Italia, che ha causato diverse epidemie in tutto il territorio nazionale, ha determinato la promulgazione di una legge che ha reintrodotto l’obbligo vaccinale per tutti i bambini fino ai 16 anni, facendo diventare la vaccinazione requisito di ammissione necessario al sistema scolastico.
I rischi di questa reticenza si ripercuotono nella difficoltà di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge” e nella possibilità che il virus continui a circolare e a sviluppare nuove varianti che non rispondano ai vaccini attualmente disponibili. Di questa quota ampia di “esitanti” solo una piccola parte è costituita dai cosiddetti no-vax o anti-vax, fortemente polarizzati su posizioni contrarie al vaccino, ma che trovano eco sui media e, soprattutto, sulle piattaforme dei social network, che agiscono da enorme cassa di risonanza anche di posizioni minoritarie o di affermazioni non sempre certificate e certificabili, tra le quali teorie complottistiche o tesi poco verosimili e non dimostrate scientificamente: all’interno dei vaccini sarebbero presenti cellule fetali umane, particelle aliene, microchip, metalli pesanti….
Alcune ragioni sono facilmente individuabili tra le cause di esitazione, prima tra tutte la velocità di sviluppo e produzione del vaccino e, non ultima, la sospensione in molti Paesi di Astrazeneca e di Johnson & Johnson per alcuni rari casi di gravissimi eventi avversi, alcuni anche letali.
Il caso della comunicazione del vaccino AstraZeneca è emblematico dell’allarmismo generato da una cattiva informazione, alimentata anche da importanti testate giornalistiche e dagli organi di informazione ufficiali. Tutto ha avuto inizio il 10 marzo 2021 dopo che l’Australia ha annunciato di sospendere un lotto del farmaco dopo il verificarsi di due casi di trombosi in soggetti da poco vaccinati. Si sono susseguite notizie sempre più allarmanti di altri casi di trombosi in soggetti vaccinati e, dopo la sospensione del singolo lotto utilizzato per quelle somministrazioni in nazioni come Estonia, Lettonia, Lituania e Lussemburgo, il 15 marzo è stata sospesa la somministrazione dell’intero vaccino in paesi come Germania, Francia, Spagna e Italia. Ciò ha portato all’intervento dell’EMA (European Medicines Agency), l’agenzia europea del farmaco, che il 18 marzo ha convocato una riunione straordinaria per effettuare una nuova revisione del farmaco in via precauzionale. Nonostante il 23 marzo l’EMA abbia indicato di proseguire le vaccinazioni, con una raccomandazione per gli over 60, poiché i benefici sono sempre ampiamente maggiori dei rischi, i paesi europei hanno adottato politiche diversificate, dalla decisione della Danimarca di sospendere definitivamente le somministrazioni, alle scelte di Belgio, Francia, Germania e Svezia di dedicarlo, rispettivamente, agli over ‘40, ‘55, ‘60 e ‘65.
In Italia il Ministero della Salute, su l’indicazione di AIFA e CTS, con una circolare del 7 aprile 2021, ribadisce un uso preferenziale del vaccino raccomandato nelle persone di età superiore ai 60 anni. L'indicazione, non vincolante, ha portato i diversi sistemi sanitari regionali a mettere in atto strategie differenziate, confluite in giornate open, gli “Astra Days” e gli “Astra Night”, che hanno visto una buona risposta in termini di consenso soprattutto tra le fasce di età più giovani, che hanno risposto con minore esitazione alla campagna vaccinale.
A seguito del gravissimo fatto di cronaca relativo al decesso di una giovane ragazza diciottenne di Sestri Levante, Camilla Canepa, il CTS ha fortemente raccomandato la somministrazione del vaccino AstraZeneca solo alle fasce di popolazione over 60 e il governo ha recepito, questa volta, in maniera vincolante l’indicazione, con una nuova necessaria strategia di programmazione del piano vaccinale.
La fiducia dell’opinione pubblica nei confronti del vaccino AstraZeneca è comunque crollata, anche a seguito di tutte le situazioni incerte e altalenanti sui possibili eventi avversi e dell’età di elezione. Il sondaggio di Index Research del 18 marzo 2021 indicava che oltre sei italiani su dieci non intendevano sottoporsi al vaccino AstraZeneca; le percentuali sono poi rientrate, ma c’è stato comunque un calo netto di somministrazioni a causa delle disdette di molti cittadini.
L’azienda anglo svedese ha anche tentato un’operazione complessa, che nel marketing prende il nome di “riposizionamento” del brand nella mente del consumatore, attraverso il cambio di denominazione del farmaco, in Vaxzevria, senza riuscire, di fatto nell’intento: per tutti, compresi gli organi di informazione ufficiali, il nome del vaccino è sempre AstraZeneca...
Il dato certo di tutta questa complessa questione è la presenza di indicazioni non univocamente interpretabili, anche da parte degli organi di vigilanza a livello nazionale e internazionale; a queste si sono aggiunte disposizioni eterogenee a livello di sanità regionale in merito al suo utilizzo, nonché posizioni di scetticismo all’interno della comunità scientifica stessa. E, infine, più di tutto, l’ondata emotiva e la pressione dell’opinione pubblica conseguenti alla notizia della morte della giovane ragazza ligure.
Tutto ciò certamente non ha aiutato a chiarire i dubbi e le perplessità e ha generato ancora maggiore incertezza nella quota di popolazione che deve ancora sottoporsi al vaccino.
È utile, allora, capire quale sia stato lo scenario della comunicazione, sia rispetto alla pandemia, sia rispetto ai vaccini. Un dato emerge con chiarezza: per la prima volta, i media, vecchi e nuovi, hanno avuto difficoltà a governare un contesto di improvvisa moltiplicazione della domanda. Media tradizionali e social media hanno avuto uno spazio rilevante in quella che molti riconoscono come un’ infodemia, che l’enciclopedia Treccani definisce come la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.
Soprattutto durante la prima fase pandemica, quella che ricopre il primo semestre del 2020, si è registrato un alto tasso di disinformazione, misinformazione, e malinformazione, insomma, di caos informativo, come direbbe Claire Wardle, e, quindi, anche di circolazione volontaria o meno di notizie false e non affidabili.
La straordinaria copertura mediatica sul tema, che ha definito l’agenda del pubblico e quella dei media, è giustificata dagli elementi di salienza individuale, percepita e comunitaria del tema, nonché dalla presenza di molti dei requisiti di notiziabilità. Tra questi la novità, la vicinanza, la dimensione del coinvolgimento, la brevità e la comunicabilità (a trovare spazio nell’agenda dei media sono le notizie più facilmente comunicabili e semplici da spiegare al grande pubblico), la conflittualità (diversi punti di vista tra cui innescare un conflitto di pensiero), la drammaticità (e il conseguente grado di coinvolgimento), la praticità (e le conseguenti ripercussioni nella vita di ogni giorno, il progresso, la possibilità che un evento si ripeta o abbia sviluppi, l’impatto sulle altre notizie, l’adattamento al medium e la spettacolarizzazione.
Il Rapporto Ital Communications-Censis dell’aprile 2021 evidenzia un eccesso di flussi informativi generali, in alcuni casi contraddittori e spesso generatori di ansia: per il 49,7% degli italiani, infatti, la comunicazione sul Covid-19 è stata confusa, per il 39,5% ansiogena (un dato che sale al 50,7% tra i più giovani), per il 34,7% eccessiva e solo per il 13,9% della popolazione equilibrata. Circa 50 milioni di italiani adulti hanno cercato informazioni sulla pandemia consultando diverse fonti: 38 milioni sui media tradizionali e 26 sui siti internet di fonte ufficiale (primi tra tutti quelli della Protezione Civile e dell’Istituto Superiore della Sanità). Solo un italiano su quattro si è rivolto al medico di medicina generale e uno su dieci a un medico specialista e/o a un farmacista di fiducia.
I motori di ricerca sul web e le piattaforme social sono gli scenari entro i quali si sono mossi, solo il Italia, oltre 15 milioni di persone per ottenere informazioni. Considerando le stime più recenti disponibili del rapporto Digital Around the World, del gennaio 2021 (wearesocial.com e Hootsuite), nel mondo gli utenti delle piattaforme social sono attualmente circa 4,2 miliardi, con un incremento di circa mezzo miliardo di persone rispetto all’anno precedente; ad oggi il 59% della popolazione mondiale ha accesso ad Internet circa 7 ore al giorno e il 53,6% fa uso giornaliero dei social network per circa 2 ore e mezza. Le piattaforme social più attive sono Facebook, YouTube e WhatsApp, con una crescita progressiva significativa di TikTok soprattutto tra i giovanissimi.
La centralità delle piattaforme social come fonti di informazione era già stata messa in luce dal Rapporto Censis sulla comunicazione del febbraio 2020, di poco precedente alla diffusione a livello mondiale della pandemia, nel quale si evidenziava l’importanza di Facebook tra i principali strumenti di diffusione delle notizie, utilizzato, dopo i telegiornali, per scopi informativi dal 31,4% degli italiani, mentre il 20,7% ricorreva ai motori di ricerca online. Nello stesso rapporto una significativa percentuale di utenti esprimeva giudizi positivi sulla disintermediazione digitale, processo attraverso il quale i social network consentono di interagire direttamente, senza filtri, con le persone a qualunque livello.
Il termine “disintermediazione”, nato in ambito finanziario ed economico, con l’avvento del web 2.0. ha assunto un nuovo significato: le aziende Over The Top (OTT), come Amazon, Google, eBay, hanno portato ad un processo che ha trasformato il campo dei consumi. Il suo utilizzo è stato poi esteso alla comunicazione in politica, nei rapporti con la Pubblica Amministrazione e, infine, ai mezzi di comunicazione: la disintermediazione applicata ai social media ha dato origine a una rivoluzione del linguaggio, a un capovolgimento nella percezione della gerarchia sociale, ad una relazione peer to peer. L’assenza di filtri o di figure intermedie può portare tuttavia alla percezione che il contenuto di una notizia sia veritiero, o proveniente da fonte affidabile, solo sulla base del grande numero di condivisioni in rete.
Sebbene alcuni studi evidenzino l’incidenza dell’uso dei social network sulla diffusione di percezioni errate in grado di orientare l’opinione pubblica, altre ricerche, condotte in ambito di comunicazione politica ed elettorale, indicano un ruolo importante nel processo di disinformazione anche da parte dei canali mainstream e istituzionali. Ai social network, tuttavia, non si può negare la straordinaria azione di rapida amplificazione. Le responsabilità, quindi, non sono attribuibili ad un’unica fonte, ma vanno ricercate in un sistema di comunicazione complesso, caratterizzato dalla velocità dell’informazione, che troppo spesso si traduce in un processo di semplificazione e banalizzazione della notizia.
Già nel mese di marzo 2020 si è registrato su Google Trends un picco di ricerche sia per il Covid-19, sia per le fake news ad esso associate, a testimonianza del fatto che, appena gli effetti del SARS-CoV-2 sono diventati una questione mondiale, le persone hanno iniziato a cercare di fare chiarezza sul virus, sul quale già giravano molte leggende. Ma il picco di ricerche sui vaccini e sui possibili effetti collaterali è della settimana di marzo 2021, in corrispondenza con le iniziative di sospensione del vaccino AstraZeneca in molti paesi.
Evidentemente alcuni aspetti della comunicazione istituzionale e attraverso i media ufficiali non hanno ottenuto l’effetto desiderato e hanno contribuito ad alimentare timori e alla proliferazione di canali di comunicazione non ufficiale.
La comunità scientifica, che ha trovato straordinaria visibilità e forse eccessiva esposizione nei media tradizionali, non si è sempre espressa con posizioni univoche rispetto ai vaccini, come del resto è avvenuto, in misura minore, rispetto agli effetti, alla pericolosità e alle misure da adottare per contrastare la pandemia.
Anche in ambito accademico, si sono contrapposte due visioni della strategia comunicativa rispetto ai vaccini: da un lato coloro che hanno sostenuto ritengono che debbano sempre essere resi noti e facilmente accessibili i sistemi di segnalazione degli effetti collaterali post-vaccinazione, poiché la trasparenza è un elemento essenziale per contrastare la diffidenza nei confronti dei vaccini, (cfr., tra gli altri, Blume e Mezza, 2021); dall’altro, chi ha sostenuto che il monitoraggio della sicurezza dei vaccini dovesse avvenire fuori dalla ribalta dei media, poiché i sensazionalismi possono danneggiare irreparabilmente la fiducia nei vaccini.
Così l‘opinione pubblica si è, di fatto, costruita una propria “rappresentazione” del tema, basata anche su una mole straordinaria di ricerca di informazioni sul web. Come avviene in ogni situazione complessa che genera bisogno di informazione, oltre alla rete dei canali istituzionali si è attivata parallelamente una rete di canali informali. Canali straordinariamente attivi soprattutto nei momenti di crisi, nei quali la necessità di rispondere all’ansia generata da ciò che non conosciamo e non controlliamo mette in atto processi di comunicazione volti a fornire risposte alle quali si è propensi a dare credito, pur non avendo certezza dell’affidabilità della fonte.
Parallelamente all’emergenza sanitaria e alla campagna vaccinale, e all’informazione sui canali istituzionali si è sviluppata, quindi, anche una storia fatta di disinformazione, notizie inventate, teorie del complotto e rimedi naturali, che si sono progressivamente adattati alle varie fasi epidemiche. Il word of mouth, ovvero il passaparola, che ha costituito una grande forza di conservazione delle idee dall'età classica all'avvento della scrittura, ha subito un processo di specializzazione di straordinaria diffusione nell’era 2.0, trovando nel web, e nei social network in particolare, un potente mezzo di amplificazione della comunicazione in tempo reale.
Come osservava Henry Jenkins quasi vent’anni fa, “ognuno di noi si crea una sua personale mitologia dalle unità e dai frammenti di informazione estratti dal flusso mediatico e trasformati in risorse da cui trovare il senso della propria vita quotidiana”.
Questa costruzione di senso sulla base delle informazioni estratte dalla rete è avvenuta e avviene tuttora, come si è detto, tramite motori di ricerca, siti web e social network, che, come diversi autori hanno evidenziato (cfr., tra gli altri, Pariser, 2011), ricorrono a degli algoritmi per filtrare le informazioni accessibili agli utenti delle proprie piattaforme e proporre agli utenti stessi informazioni personalizzate. Questa bolla sarebbe però invisibile e ciò avrebbe una conseguenza determinante sulle capacità di conoscenza umane. Si creano così le cosiddette echo chambers (o “camere d'eco”), ambienti virtuali in cui un utente si trova a visualizzare prevalentemente contenuti coerenti con le sue convinzioni e ideologie, e ad interagire maggiormente con altri utenti che condividono le sue stesse opinioni.
I social network, quindi, hanno una responsabilità rispetto a ciò che viene proposto agli utenti; con la proposta di regolamento del Digital Service Act, che potrebbe entrare in vigore tra due anni, si potrebbe migliorare l’algoritmo di indicizzazione, ordinando i contenuti non solo per popolarità, ma per qualità, superando la logica del click baiting. Questa tecnica viene applicata solitamente al titolo degli articoli proposti online, in modo da ingaggiare la curiosità del pubblico fin dalla headline: è una tra le strategie più utilizzate per attirare utenti ed aumentare il numero di visualizzazioni, il traffico su un sito, o la quantità di conversioni. Tutto ciò che si trova above the fold, ossia nella parte superiore di una pagina web visibile senza scrolling, spesso con titoli sensazionalistici, è in genere preposto ad attirare l’attenzione di chi legge, tanto da suscitare un interesse che porti a consultare poi l’intero contenuto.
L’attendibilità della fonte rimane comunque un tema centrale nel dibattito relativo alla condivisione delle notizie in rete, che, non di rado, generano quelle che oramai comunemente e spesso impropriamente vengono definite fake news, termine con il quale si tende a catalogare qualunque notizia falsa comunicata come vera e come tale creduta e condivisa, che fa riferimento ai campi più eterogenei della comunicazione on line. Ma, soprattutto in era pandemica, nella quale la fame di informazione è stata elevatissima e le notizie hanno un peso nell’orientare atteggiamenti e comportamenti nella popolazione, questo fenomeno non può essere sottovalutato, e ne va valutata la reale portata in termini di ri-costruzione dei fenomeni di realtà e di definizione delle aree grigie della comunicazione istituzionale.
Per questo motivo molte iniziative sono state intraprese per ridurre l’impatto del fenomeno a livello sociale e sanitario: dalle campagne di sensibilizzazione, alle collaborazioni con siti di debunking, alle stesse piattaforme social. A livello istituzionale sono state create apposite pagine web in cui si fa informazione, si risponde alle domande frequenti, si chiede la collaborazione nel segnalare le notizie false e si suggeriscono i siti utili in cui approfondire determinati argomenti (tra gli altri i siti dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero della Salute e dell’ Unione Europea), mentre le grandi piattaforme social, in collaborazione con le più importanti associazioni di fact-checking, hanno intrapreso ulteriori misure di controllo delle informazioni pubblicate dagli utenti, oltre a quelle già attive sui motori di ricerca (come Google) o sulle piattaforme social. Quasi tutte hanno inserito sezioni con aggiornamenti in merito alla situazione pandemica e alla fase vaccinale, rimandando ai profili ufficiali dell’OMS o del Ministero della salute.
Ma le iniziative a livello istituzionale e sulle piattaforme dei social network da sole non possono essere sufficienti, se ad esse non si affianca una strategia di digital education, che coinvolga gli utenti in un processo che vada oltre la lettura superficiale, il browsing meccanico, la veloce condivisione e i like, recuperando un interesse all’approfondimento e alla comprensione culturale.
Per fermare questo fenomeno è quindi necessario migliorare la qualità dell’informazione e favorire forme di comunicazione più consapevoli e cooperative, puntando a quell’intelligenza collettiva auspicata da autori come Pierre Levy, o, meglio ancora ad una intelligenza connettiva, come direbbe De Kerckhove, basata sulla moltiplicazione delle intelligenze e favorita dalla connessione.
La sfida è capire come perseguire questo obiettivo in un ecosistema informativo complesso senza rinunciare alla propria identità.