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25.Il nostro secolo
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Il primo novecento

Il colloquio bilaterale tra lavoratori e datori di lavoro fu molto facilitato dalla svolta dal governo Giolitti che operò una profonda riforma politica facendo che lo stato dimostrasse "coi fatti e non con le parole" la propria imparzialità nei conflitti di classe e garantisse il pieno esercizio dei diritti sociale e sindacali. La nuova tattica giolittiana diede in pochi anni risultati notevoli: le industrie fecero un balzo in avanti, il denaro prese a circolare, ed economicamente il paese ne uscì rafforzato. Il governo intervenne anche nel campo della risicultura: nei prima anni del ‘900 disposizioni legislative e regolamenti sulle risaie si moltiplicano anche sotto la spinta delle iniziative di vario genere assunte dal movimento dei lavoratori dal Partito Socialista ma anche dei proprietari[1]. La normativa sulla materia che culmina nella Legge Giolitti del 16 giugno 1907 diventa abbastanza ampia ed articolata investendo diversi settori: dalla somministrazione del chinino all'acqua potabile, dalla regolamentazione del lavoro minorile e delle donne alla salubrità delle abitazioni rurali, dai limite dell’orario alla forma dei contratti. Però l’intervento dello stato, che nel secolo precedente aveva assunto in materia posizioni nettamente liberiste, fu considerato dai risicoltori con fastidio ed ostilità, quasi un'ingerenza su cose “che non lo riguardano e neppure conosce”.[2]

Nel 1912, quasi a coronamento della sua opera politica, Giolitti introdusse il suffragio universale (con l'esclusione delle donne) che portò il numero degli elettori a 9 milioni.

Pace sociale e ripresa economica tuttavia erano destinate a durare ancora per poco: in un primo tempo la guerra di Libia (1911) contro l’Impero Ottomano e poi la prima guerra Mondiale (1915) imposero uno sforzo popolare mai visto prima; enormi masse di uomini furono mobilitate sul fronte interno così come sul fronte di battaglia, dove i soldati dovettero adattarsi alla dura vita di trincea, alle privazioni materiali e alla costante minaccia della morte. Dopo una lunga serie di inconcludenti battaglie, la vittoria degli austro-tedeschi nella battaglia di Caporetto dell'ottobre-novembre 1917 fece arretrare il fronte fino alle rive del fiume Piave, dove la resistenza italiana si consolidò; solo la decisiva controffensiva di Vittorio Veneto e alla rotta delle forze austro-ungariche, sancì la stipula dell'armistizio di Villa Giusti il 3 novembre 1918 e la fine delle ostilità, che costarono al popolo italiano circa 650.000 caduti e un milione di feriti. Olevano pagò un duro prezzo di vittime: gli Olevanesi che non fecero più ritorno furono ben ventotto a cui si aggiunsero altri otto reduci morti a casa a causa delle malattie contratte[3]. Nonostante ciò fu immensa la gioia il 4 novembre 1918, giorno nel quale si apprese della firma dell'armistizio: le campane suonarono a festa e tutti si riversarono nelle strade per festeggiare la fine di un così tragico conflitto.

Il quadro politico italiano degli anni seguenti apparve profondamente mutato: il Partito Socialista ottenne larghissimi consensi (le elezioni amministrative del 1914 avevano già portato ad Olevano l'elezione di Giovanni Cantone, primo sindaco socialista), i cattolici si organizzarono nel Partito Popolare mentre gli ex combattenti, di estrazione piccolo borghese, aderirono sempre più numerosi al Movimento fascista. Le lotte sindacali, tra cui lo sciopero generale di Lomellina del 5 marzo 1920, suscitarono la progressiva reazione borghese ed agraria che trovò il proprio esercito di ventura nelle Squadre d'Azione Fascista. Queste sorsero a Mortara nel febbraio del '21 e iniziarono subito, appoggiati dalla locale associazione agraria, azioni di rappresaglia contro le leghe socialiste di tutti i paesi. A Ceretto, Lomello, Cergnago caddero le prime vittime mentre un po' dovunque venivano arrestati e condannati i rappresentanti sindacali. L'8 maggio dello stesso anno i fascisti celebrarono il loro trionfo in Lomellina con una manifestazione a Mortara a cui partecipò anche Benito Mussolini che il 31 ottobre dell'anno seguente diventerà Capo del Governo[4]. Nel 1923 il parroco scrive che nel paese, fino a poco tempo prima diviso fra socialisti e liberal-fascisti, "regna ora una concordia un po' falsata". Il sindaco socialista Giovanni Risè fu sostituito dal Podestà, Pietro Bellone, nominato su designazione regia, ma, nonostante le pressioni ed intimidazioni delle squadre di Cesare Forni, alle elezioni politiche della primavera del 1924 si registrò un imprevedibile successo del neonato partito comunista.

Nel 1925 fu lanciata dal governo fascista la campagna per la battaglia del grano, con lo scopo di incentivare la produzione nazionale del prodotto. In Lomellina la produzione del frumento subì un rapido innalzamento, grazie anche all'introduzione della tecnica del trapianto nella coltivazione del riso. Questo sistema, sperimentato a partire dal 1912 presso la stazione di risicoltura di Vercelli per iniziativa del senatore Novelli, permetteva di trapiantare entro il mese di giugno le piantine di riso, cresciute in un semenzaio, su terreni precedentemente coltivati a grano o più raramente a prato. Si potevano così ottenere due raccolti. Il trapianto e la successiva "monda" richiedevano molto lavoro, occupando tutta la mano d'opera disponibile in loco e richiamando molti lavoratori "forestieri" dalle varie regioni d'Italia. I salari più alti e l'offerta di lavoro spinsero molti abitanti della Lombardia orientale delle Venezie verso la Lomellina. Il fenomeno fu una vera e propria epopea [5]che si protrasse fino agli anni Sessanta: all'inizio dell'estate, migliaia di donne, accolte alla stazione di Mortara, erano smistate nelle aziende agricole dei nostri paesi dove venivano assunte per la monda del riso, da cui il nome di mondine o mondariso. Il loro lavoro era lungo e faticoso: chine sotto il sole implacabile, con i piedi e le mani nell'acqua fangosa, strappavano a mano le erbe infestanti. L'orario di lavoro raggiungeva le 12 ore giornaliere. A una prima monda ne seguiva una seconda, dopo una ventina di giorni, e spesso anche una terza. Le mondine erano alloggiate in dormitori comuni arredati con pagliericci o brandine; il vitto era povero e la paga pure. Grande era la fatica e molte le privazioni e le sofferenze cui queste donne si sottoponevano nei quaranta giorni di monda per uno scarso compenso, che era però indispensabile per sostenere il povero bilancio delle loro famiglie. Nelle nostre campagne, ora che le mondine sono ormai scomparse, è ancora vivo il ricordo della loro spensierata allegria giovanile e dei loro canti spiegati che scandivano il ritmo del lavoro. Una donna intonava il motivo, con un assolo quasi gridato, al quale si univano tutte le altre in un coro di volta in volta malinconico o allegro, ma sempre ricco di pathos struggente[6].

Verso la fine degli anni Venti si diede l'avvio alla costruzione del nuovo palazzo comunale e alla realizzazione della piazza, ora Piazza della Libertà, e delle vie adiacenti (via Marconi e via Cesare Battisti). Il Palazzo Municipale fu progettato nel 1927 dall'ingegnere pavese Pietro Zorzoli e fu terminato negli anni successivi con la spesa complessiva di 208.403,11 lire. Il nuovo palazzo comunale, con annessa l'ala riservata alle Scuole Elementari, fu inaugurato il 9 novembre 1930 alla presenza del Duca di Bergamo e di tutte le maggiori personalità della provincia; dopo centinaia di anni il Comune lasciava la sua sede di via Vittorio Emanuele II, per lasciare posto alla Casa del Fascio[7].

Gran parte della popolazione aveva sopportato il regime fascista in un silenzio rassegnato che sconfinava nell'indifferenza. Quando però, il 10 giugno 1939, in tutte le piazze della penisola, l'altoparlante diffuse la voce di Mussolini che annunciava l'entrata in guerra, la gente rimase attonita.

Anche se lontano dai centri nevralgici, il conflitto si fece sentire anche ad Olevano. Incominciarono ad arrivare gli sfollati dalle grandi città mentre molti giovani furono strappati dalle famiglie per raggiungere il fronte. In alcune occasioni gli aerei nemici sganciarono anche alcune bombe in vicinanza della ferrovia rischiando di colpire il centro abitato ed il cimitero; durante uno di questi bombardamenti si aprì nel muro della chiesa parrocchiale una lunga crepa che ancora oggi testimonia quei terribili momenti.

La guerra andò subito male per l'Italia: l'impreparazione militare, la sottovalutazione delle forze avversarie e l'improvvisazione con cui fu affrontata, portarono alla disfatta del nostro esercito e alla caduta del regime. Il 26 luglio 1943, a poche ore dalla caduta del fascismo e dall'arresto di Benito Mussolini, i fascisti erano scomparsi da Olevano e da tutta la Lomellina: uomini, donne, e giovani si raccolsero esultanti in piazza. La collera popolare si rivolse contro gli emblemi fascisti, furono abbattuti i fasci e bruciati scritti e documenti.

Subito dopo arrivarono i tedeschi, ed i fascisti, organizzata la Federazione dei Fasci Repubblicani, fecero eco alle minacce delle SS tedesche non nascondendo i loro propositi di rivincita e di vendetta. Si costituirono così nei nostri paesi i SAP, Squadre di Azione Patriottica, dirette da Carlo Lombardi, che iniziarono a colpire i nazisti con azioni quotidiane di guerriglia. La resistenza partigiana ben presto si spostò nelle zone montuose dell'Oltrepò Pavese e di iniziò la dura lotta per la liberazione nazionale. Nella primavera del '45 gli Anglo-americani, sfondata la linea Gotica, entrarono in Bologna: il 25 aprile tutta la Resistenza insorse mentre le truppe tedesche cercavano scampo ovunque. La mattina del 26 aprile un intero convoglio ferroviario carico di viveri fu abbandonato presso il ponte ferroviario sull'Agogna, a poche centinaia di metri dalla stazione di Olevano, e saccheggiato dalla popolazione: dopo poche ore il treno fu preso di mira da un'incursione aerea tedesca che provocò alcuni morti e feriti danneggiando anche il ponte stradale, poi ripristinato nell’immediato dopoguerra[8] . Un altro cruento fatto turbò la vita del paese fu la misteriosa uccisione del segretario comunale, il signor Domenico Milano, avvenuta la sera di sabato 9 maggio, mentre i giovani del paese festeggiavano la riconquistata libertà sulla balera pubblica.

Nei mesi seguenti la vita riprese fra mille difficoltà, ma con la volontà di ricostruire ciò che la guerra aveva spazzato via in pochi anni. Con il primo gennaio 1946 l'Italia settentrionale fu restituita formalmente dal governo alleato all'Amministrazione italiana che preparò l'elezione per l'Assemblea Costituente e per il Referendum Istituzionale: dopo sei mesi, il 2 giugno fu proclamata la Repubblica.

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[1] La Domenica del Corriere del luglio 1904 ci informa di un esperimento promosso dal Congresso di Risicoltura nella proprietà Drovanti e diretto dal professor Grassi dedicato al lavoro in risaia spaziando dalle condizioni sanitarie (cura di febbri malariche e dermatiti), dal miglior abbigliamento e uso di accessori (gambali di gomma e retine), alle migliori modalità per la pratica della monda (con una o due mani).

[2] Antonio Lazzarini, Fra terra ed acqua, Roma 1995

[3] Ai caduti olevanesi della Prima guerra mondiale saranno dedicati negli anni venti il viale del cimitero o viale della rimembranza e il Monumento ai caduti davanti alla chiesa parrocchiale. Ecco i nomi dei soldati morti sul campo o in prigionia: Avico Pietro, Beritti Luigi, Bertolaia Paolo, Bisoli Francesco, Bonati Clemente, Buscaglia Angelo, Buscaglia Secondo, Braghelli Pietro, Calura Pietro, Camussi Cesare, Cecchi Carlo, Corbella Pietro, Ferraris Luigi, Festa Secondo, Garavelli Domenico Carlo, Legnazzi Pietro, Leone Luigi, Nardi Carlo, Oldani Giovanni, Rolandi Luigi, Rotta Giuseppe, Serafini Delfino, Serafini Luigi, Sorati Pietro, Silva Battista, Signorelli Paolo, Signorelli Pietro, Usardi Giovanni.

Infine i nomi dei soldati che tornarono a casa feriti o con gravi malattie e morirono nei mesi successivi: Breme Paolo, Braghelli Francesco, Cantella Giovanni, Ferrari Enrico, Marchetti Battista, Mariani Domenico, Rogna Luigi, Tovaglioli Giuseppe.

[4] Ferrario: Carlo Lombardi...

[5] Per la monda del 1929 ad Olevano arrivarono ben 522 lavoratori (90 uomini e 432 donne).

[6] FRANCESCO ADAMO e AA VV

La pianura del riso ed il Pavese

[7] L’edificio è un bell’esempio dell’architettura razionalista che si diffuse in tutta Italia a partire dal 1926 e l’aspetto è imponente, di forma quadrata, a due piani; lo spazio interno era suddiviso in due parti: una, verso la nuova piazza, ospitava gli uffici comunali e la sala Consiliare, l’altra, sul retro, ospitava le cinque aule delle scuole elementari. Negli anni ’80 iniziarono a manifestarsi importanti cedimenti strutturali  che resero necessari lavori di consolidamento e rifondazione eseguiti negli anni 1990/94.

In questa occasione, per la chiusura delle scuole elementari e per gli aumentati bisogni di spazi per i servizi municipali, fu parzialmente cambiata la divisione interna, ora tutta destinata agli uffici Comunali. Al piano terreno si trovano l’ufficio Anagrafe, la Ragioneria e la Sala Polifunzionale. Un ampio scalone porta al primo piano dove si trovano l’ufficio Tecnico, l’Archivio e la Sala Consiliare.

Particolarmente interessanti sono gli affreschi presenti nella sala del Consiglio: oltre alle decorazioni del soffitto, che presentano motivi ornamentali e gli stemmi del comune e della provincia, è possibile ammirare la grande parete affrescata. Il dipinto raffigura l’investitura del comando supremo del mare fatta dalla Repubblica di Genova all’ammiraglio Uberto dei marchesi Olevano.

Gli affreschi e le decorazioni, oltre ai due ritratti ad olio raffiguranti il re Vittorio Emanuele III e il Duce Benito Mussolini di cui si ha memoria e che sono andati perduti nel 1945 durante i giorni della liberazione, furono eseguiti dei pittori vigevanesi Emilio Galli e Francesco Mazzucchi e risanati nel 1995 dal restauratore robbiese Giuseppe Pavone.

Nell’aula consiliare è anche esposta una antica mappa del primo catasto piemontese del 1774.

[8] Il ponte in cemento armato lungo 34 metri fu costruito dal comune fra il 1909 e il 1910.