NewsLetter di Medicina e Psicologia - 2022 - Gennaio-Febbraio
Il sommerso del disagio psichico: alcune riflessioni sulla negazione al diritto alla salute mentale
Con questo mio intervento vorrei portare alla vostra attenzione domande e riflessioni, da anni sedimentate nella mia mente intorno al tema della salute mentale e, ciò che è argomento di questo numero dedicato della newsletter, la negazione del diritto alla salute mentale. Si tratta naturalmente di un tema di complessità enorme e in questo scritto penso di poter provare a suggerire solo alcuni dei percorsi che hanno determinato la progressiva trascuratezza e impoverimento qualitativo e quantitativo degli interventi sul disagio psichico nel corso degli ultimi decenni. Vorrei prendere in esame, oltre a dei fattori oggettivi estrinseci, anche degli aspetti relativi alle mentalità dei diversi professionisti della salute mentale, che hanno, a mio avviso, agevolato questo decadimento. Lasciatemi iniziare il mio ragionamento con un ricordo personale.
Circa venti anni fa, durante un soggiorno di studio negli Stati Uniti, decisi di visitare New York di notte, per scoprire il lato che immaginavo nascosto, più oscuro e affascinante della più grande e avanzata metropoli del mondo. Grande fu il mio stupore nel constatare che allo spegnersi delle insegne, alla chiusura degli uffici e delle attività commerciali il brulichio frizzante e sfavillante della seconda casa del mondo, così amano definirsi i newyorchesi, veniva inghiottito in un silenzio surreale da cui riemergeva un mondo sommerso di ratti, saltati fuori come impazziti da ogni tombino a ricoprire le strade altrimenti popolate del distretto finanziario, e uomini. Migliaia di uomini che non avevano fissa dimora e si erano abituati a pensare che i cartoni adagiati sulle sporche strade di Manhattan fossero effettivamente la loro prima casa. Questa visione notturna aveva richiamato in me scene viste in Paesi agli antipodi economici e culturali degli Stati Uniti, ne chiesi ragione a un collega americano. Mi disse che quello a cui avevo assistito altro non era che la conseguenza dei tagli all’assistenza psichiatrica deciso dall’ultima amministrazione. Per me psicologo clinico, cresciuto nell’accogliente ventre del welfare europeo e ispirato della grande riforma psichiatrica italiana degli anni ’70, vi fu il riflesso di derubricare questi fatti come esiti più o meno inevitabili delle dinamiche vitali, ma talora implacabili del capitalismo statunitense e delle angustie economiche e tecniche cui era stato relegato l’intervento sulla salute mentale in quello, per altri versi, straordinario Paese. Mi sbagliavo e per almeno due ordini di motivi.
Occorre intanto constatare che, in una certa misura, benché con meccanismi compensativi più efficaci, la caduta dell’assistenza psichiatrica si è verificata anche in Europa, e in particolare in Italia nel corso dell’ultimo ventennio. In secondo luogo, non era ancora in me chiara la consapevolezza di quanto si stesse concretizzando anche nel nostro vecchio mondo una linea di sostanziale indebolimento non solo e non tanto degli interventi su disturbi psichici più flagranti, ma anche sulle componenti più insidiose del malessere che possono colpire la maggior parte della popolazione “non clinica”, non afflitta da croniche e manifeste condizioni di vulnerabilità. Si presenta qui il tema di un altro sommerso, forse il vero sommerso del disagio psichico, che non coincide con la presenza di una malattia psichiatrica maggiore anche se ne può costituire il punto di insorgenza. Questo mondo di disagio, fluido e in continuo movimento, ha a che fare con i delicatissimi equilibri che facilitano od ostacolano le capacità individuali di provvedere alle esigenze quotidiane ed esistenziali di cura della propria integrità fisica, della propria vita di relazione, della propria collocazione lavorativa, dello sviluppo di un senso di appartenenza e partecipazione alle comunità di riferimento, e in senso ampio, dal sentimento di essere sé stessi nella propria vita. Se la definizione del concetto di salute mentale si presta a notevoli controversie e rischia di mantenersi in un certo alone di vaghezza, il tema della perdita degli equilibri su cui poggia la salute mentale assume sempre una configurazione precisa nei termini della sofferenza personale e dei rapporti umani. Spesso questo disagio costituisce il punto di innesto di veri e propri disturbi psichici e di una loro perdita di compensazione quando essi sono già presenti. In modo altrettanto evidente anche quando il disagio psichico non da origine a queste manifestazioni patologiche, determina un insidioso distacco dalla vita con conseguenze significative su diversi piani.
Come mai dunque si è potuti giungere a questa disattenzione selettiva se non addirittura trascuratezza nei confronti di questo mondo sommerso che, proprio come la salute fisica, torna a farsi inesorabilmente sentire quando manca?
Un’analisi realistica di questa svolta non può in primo luogo disconoscere il ruolo delle contingenze storiche ed economiche. Così, la crisi del debito internazionale e l’esigenza di salvaguardare in un momento di grande incertezza ha colpito prima il sistema dell’istruzione (dove, università compresa, dal 2008 al 2018 si è registrato un decremento del 30% degli investimenti pubblici) e, successivamente, anche se in misura più limitata il sistema sanitario nazionale. Fermo restando i vincoli oggettivi posti dalla situazione economica, occorre chiedersi perché siano stati proprio i servizi psichiatrici a fare le spese maggiori di questi tagli. Non c’è dubbio che la salute fisica debba essere al primo posto della progettazione della salute pubblica. Ma siamo sicuri che questa priorità sia l’unica fonte di queste scelte? A ben guardare, questa decisione non sembra essere del tutto razionale in termini economici, se è vero, come dimostrano decine di studi, che lo scadimento della qualità della cura per i disturbi psichiatrici si riversa inevitabilmente su costosissimi interventi di urgenza e di tipo residenziale. Inoltre, è certificato da altrettanti studi che le condizioni di disagio psichico hanno dei costi aggiuntivi sulla spesa sanitaria avendo un impatto rilevante sullo stato di salute generale, esacerbando condizioni patologiche pregresse e allungando i tempi di guarigione, ed ostacolando la compliance al trattamento. In un recente studio pubblicato da Lancet, è stato ad esempio evidenziato come le condizioni di fiducia nei riguardi delle cure mediche in senso lato, hanno di fatto influenzato l’accesso non solo alle vaccinazioni, ma al trattamento in presenza di sintomi più o meno gravi dell’infezione da COVID. Tutto ciò anche in Paesi avanzati, a prescindere dalla cultura scientifica media posseduta dagli individui.
Sto dunque descrivendo una situazione in cui i professionisti della salute mentale, sia per motivi legati ai cicli economici, sia ad altri fattori, hanno progressivamente visto erodere le possibilità di intervento ad ampio spettro sulla salute mentale. Nel campo dei gravi disturbi, nonostante gli sforzi coraggiosi di molti colleghi impegnati nella quotidiana azione di fronteggiamento di richieste massicce di intervento sull’urgenza, spesso in territori segnati dalla disgregazione sociale e dei rapporti umani, le azioni di tutela e cura si sono sempre più rivolte agli aspetti di diagnosi e trattamento farmacologico. I tempi spesso ristrettissimi e il sovraffollamento dei servizi dettati dal diminuire delle risorse rende peraltro particolarmente oneroso e difficoltoso lo svolgimento di entrambe le funzioni. Nell’ambito dei servizi materno-infantili, almeno nel Lazio, è sempre più marginale la presenza di neuro-psichiatri infantili, l’intervento si è concentrato soprattutto su aspetti riabilitativi, la presa in carico dei diversi quadri di disagio psichico in età evolutiva devoluta alle strutture di terzo livello che, di necessità, sempre più si sono dovute orientare verso il trattamento in urgenza secondo le modalità più tipiche dei Dipartimenti di Salute Mentale per Adulti. La possibilità di erogare psicoterapie individuali e familiari si è andata diradando. Nel corso degli ultimi anni, anche grazie ad alcune azioni di risanamento dei budget regionali della sanità, si è assistito a segni di contrasto di questa tendenza. A questo hanno certamente contribuito gli sforzi coraggiosi di piccole comunità di cura che si sono organizzate presso singole realtà territoriali costruendo delle progettualità rivolte alla presa in carico di bisogni stratificati e articolati di cura.
C’è da augurarsi che questi esempi possano costituire l’indice di una stabile inversione di tendenza, ma in tutta onestà dubito personalmente che tutto ciò possa consolidarsi se all’interno dei rispettivi ambiti professionali non si apre una discussione critica e fattiva sulle mentalità (preferisco parlare di questo piuttosto che di culture professionali) che hanno a mio avviso in misura considerevole sostenuto e assecondato questo processo. Si tratta di mentalità e non di culture professionali poiché esse si presentano in modo trasversale e diffuso nei diversi orientamenti dei professionisti della salute mentale. Inoltre come cercherò di spiegare, sono disposizioni di fondo che tendono a rinforzarsi vicendevolmente.
Mi riferisco in primo luogo all’evoluzione dell’approccio alla cura psichiatrica a partire dagli anni ottanta del secolo scorso. In quegli anni si è affermata un’impostazione alla spiegazione e al trattamento dei principali disturbi mentali che vede nell’alterazione della connettività fra diverse aree cerebrali l’etiologia della malattia mentale. Il modello riduzionistico del “broken brain” o della “malattia sinaptica”, per fornire alcune definizioni che hanno preso velocemente piede, ha progressivamente occupato il campo degli approcci al trattamento del disagio psichico. Sicuramente questo rapido sviluppo è stato suffragato dalla solida impostazione metodologica che sovrintende allo studio dei processi neurobiologici implicati nella genesi, sviluppo e mantenimento dei disturbi psichiatrici e dai notevoli successi terapeutici, almeno in alcuni ambiti clinici specifici, che a questa metodologia devono la messa a punto di presidi farmacologici sempre più precisi ed efficaci per i singoli disturbi. Detto per inciso, questi progressi hanno accompagnato in senso positivo il processo di territorialzzazione della cura e incrementato la cultura scientifica nel trattamento dei disturbi psichiatrici. Al tempo stesso, la fiducia esclusiva in questa modalità di intervento ha portato a marginalizzare l’attenzione per le componenti psicologiche del disagio e alcune domande fondamentali che i pazienti fanno al professionista. Dalla possibilità di garantire la presa in carico dei complessi bisogni di cura dipende spesso la stessa possibilità di creare un campo di cura efficace anche per gli interventi farmacologici. In questo clima generale, gli sforzi di mantenere in piedi un sistema di cura rivolto almeno ai principali disturbi psichiatrici, ha anche determinato una frammentazione del lavoro di equipe del contesto di cura, una ridotta presa in carico della relazione terapeutica con il paziente e i suoi familiari, una negligenza per gli equilibri di personalità che possono ostacolare o facilitare il percorso di trattamento, un sostanziale annullamento dell’interesse per la ricostruzione di senso del malessere radicato nella storia e nella soggettività del paziente. Il restringersi del campo dell’intervento di tutela della salute mentale, ha inevitabilmente prodotto una pressoché totale trascuratezza per sommerso del disagio psichico che riguarda una fetta consistente e potenzialmente estesissima di perdita di equilibrio nell’esistenza che possono o meno esitare in forme minori di disturbo psichiatrico. Ritengo che la necessità ineludibile nell’ambito della progettazione di interventi di reale efficacia terapeutica anche in ambito psicoterapeutico che ha portato a privilegiare le terapie evidence-based non abbia contributo a migliorare la situazione. L’erogazione di tecniche di comprovata efficacia ha di fatto lasciato scoperta l’esigenza della presa in carico della relazione, della richiesta di calore umano, di ricostruzione del senso personale della sofferenza da cui, a mio avviso, gli altri piani di intervento dovrebbero discendere o comunque con cui dovrebbero integrarsi. I limiti di un'impostazione che alcuni psichiatri hanno criticamente definito mindless psychiatry si scorgono in modo ancora più evidente negli ultimi anni in cui i trattamenti farmacologici dopo alcuni importanti avanzamenti del passato iniziano a dimostrare di avere un impatto limitato a fronte di disturbi che hanno una storia evolutiva che ha precocemente ed estesamente alterato lo sviluppo dei circuiti cerebrali deputati all’organizzazione dell’esperienza e dell’interazione con l’ambiente. La patologia mentale e il disagio psichico in senso più ampio continuano dunque ad avere una loro inerzia e a sottrarsi a qualsiasi approccio che non sia in grado di cogliere l’intreccio delle determinanti biologiche, con il senso vulnerabilità derivato dalle storie personali e con le peculiarità dell’antropologia umana. A differenza dei ratti newyorkesi, sempre questa stratificazione emerge allo scoperto alla piena luce del sole e sempre meno appare relegabile nella parte oscura della nostra società e dei nostri sistemi di cura.
In modo che ritengo ancor più inspiegabile, per me psicologo clinico, si è assistito a una progressivo indebolimento del legame tra il punto di vista della psicologia clinica e la più ampia finalità della cura del disagio psichico. Inizialmente, questo processo ha avuto le sue ragioni, in buona parte condivisibili, nella critica all’approccio iper-medicalizzato e integralmente biologico del trattamento psichiatrico. Questa spinta che muoveva da solide analisi culturali si è, tuttavia, trasformata in un distacco dai temi stessi della cura e dalla complessità che governa gli equilibri mentali individuali e di relazione. L’avversione al modello medico ha in qualche modo sposato atteggiamenti di riluttanza a farsi carico di tutti gli aspetti delle domande di cura che, è bene ricordarlo, vertono innanzitutto su un’emancipazione dagli aspetti di sofferenza. In modo simmetrico a quanto avvenuto nel campo della psichiatria biologica, si è arrivati a una sottovalutazione, quando non aperta negazione dell’importanza dei processi cerebrali implicati nel disagio psichico. Ci si è occupati sempre meno dei risvolti che il corpo e le condizioni di perdita della salute organica ha per la vita mentale e del suo reciproco. Si è anche progressivamente abbandonata l’aspirazione ad elaborare modelli di comprensione del disagio ed articolare in modo flessibile specifici contributi tecnici con una più ampia visione delle diverse componenti del disagio psichico.
Tutto ciò quando nella prassi quotidiana le chiusure dei medici a tale impostazione sono limitate e non sempre sostenute da motivazioni ideologiche. Più spesso è dato riscontrare nei diversi contesti di cura ospedaliera e territoriale rispetto, curiosità, richiesta di collaborazione e talora un’aperta condivisione di strategie terapeutiche da parte di altre figure professionali nei confronti del sapere psicologico clinico. Con una tendenza che non sarebbe corretto generalizzare ma che si è diffusa nel tempo presso le diverse agenzie di formazione universitario e post-unversitario, l’ordine professionale e gli stessi professionisti, gli studenti, si è assistito a un dilagare di una mentalità che ha auto-marginalizzato il punto di vista psicologico rispetto all’assunzione delle responsabilità della cura. Misura del disinvestimento economico, culturale, formativo e affettivo dalla presa in carico di queste istanze è la progressiva desertificazione della presenza dello psicologo nei servizi che dovrebbero presiedere alla cura e mantenimento della salute mentale. Non c’è dubbio che qui si è giocata una parte considerevole della negazione al diritto alla salute mentale su cui si vuole riflettere. Nel corso degli ultimi decenni si è drasticamente ridotto il numero degli psicologi assunti presso i servizi di salute mentale e i reparti di psicologia ospedaliera. Tale riduzione del personale ha comportato spesso una altrettanto rilevante perdita di operatività e qualificazione dell’intervento. Non è andata meglio nei due rilevanti contesti di cerniera di tutela della salute mentale. Nel contesto giudiziario, ambito in cui le capacità progettuali e di intervento degli psicologi avevano potuto dispiegarsi pienamente, l’impiego degli psicologi è passato sotto la gestione dei servizi di salute mentale. Tutto ciò ha prodotto un depauperamento progressivo delle risorse a disposizione per sopperire, in misura peraltro mai realmente efficace, alle carenze determinatesi nell’ambito nel sistema sanitario nazionale. Il secondo ambito di rilievo sarebbe quello scolastico. Condizionale d’obbligo perché in questo contesto strategico ai fini della prevenzione e degli interventi precoci sul disagio infantile e adolescenziale (ma proprio per questo di fondamentale ausilio anche al corpo docente) non si è verificata alcuna programmazione e non è prevista, se non per sporadiche per quanto lodevoli iniziative dei singoli dirigenti scolastici, la presenza organica dello psicologo.
Di contro, si è affermata una modalità di affermazione professionale che è stata rivolta soprattutto all’accreditamento e alla conquista di segmenti di mercato sempre più specifici, ridotti.
Le tradizioni cliniche più consolidate hanno continuato a rappresentare nell’ambito degli interventi privati un riferimento imprescindibile, accessibile tuttavia ai segmenti più colti e abbienti della popolazione. Per il resto la cultura clinica psicologica ha perso di vista il bersaglio fondamentale e si è o frammentata in tante frammentate tecniche di risoluzione di problemi dell’intervento; oppure ha dato luogo a un’interpretazione debole dell’intervento clinico che forse ha contribuito a diffondere l’immagine dell’intervento psicologico sulla salute mentale come una variante nel campo delle leisure activities.
Peraltro, questo ha certamente garantito la risposta alla domanda di formazione del numero crescente di psicologi ma non ne ha certo tutelato la reale collocazione nel campo professionale, se è vero che i recenti laureati in psicologia percepiscono il livello più basso di reddito fra i laureati nazionali.
Viviamo un tempo difficilissimo e mentre termino di scrivere queste righe echeggia il timore che le fondamenta più essenziali della nostra convivenza civile possano venir meno. Le parole che ho cercato di ordinare per presentare le mie riflessioni possono apparire di marginale importanza rispetto a quanto potrebbe riservarci questo futuro incerto. Ciò tuttavia alcune tragedie che stiamo attraversando ha avuto l’effetto di portare nuovamente allo scoperto il sommerso di disagio psichico che silente si annida nelle nostre vite. Mi auguro che sapremo riflettere su quanto sta avvenendo per concepire la necessità di un’elaborazione di nuovi modelli di intervento, collaborazione professionale e condivisione culturale non come un bonus da strappare in tempi di vacche grasse, ma come profonda responsabilità della cura.