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22.La provincia Lomellina
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La provincia Lomellina

I rappresentanti delle potenze europee si riunirono nel Congresso di Vienna con l'intenzione di riordinare l'Europa e di cancellare le tracce della Rivoluzione Francese: dopo quindici anni di penoso esilio, nel 1814, ritornava a Torino il re Vittorio Emanuele I. Sincere furono le accoglienze entusiastiche del popolo al suo re; tuttavia, la fretta nel restaurare il passato e ritrasformare il Piemonte comme en novantott (come nel '98), fece del Regno Sardo una delle roccaforti più arcigne della reazione in Italia. Anche la Lomellina, con la Liguria, Nizza e la Savoia, ritornò al Piemonte; in un primo tempo furono ricostituite le province di Mortara e Vigevano, ma nel 1818 si realizzava la Provincia Lomellina. La nuova provincia era divisa in 14 mandamenti; Olevano faceva parte del mandamento di San Giorgio. La Prefettura ed il Tribunale avevano sede a Vigevano, mentre a Mortara, divenuta capoluogo, si stabilirono il Comandante e l'Intendenza. Il fatto più rilevante fu che per la prima volta veniva riunita sul piano amministrativo l'intera regione geografica.

Questo fatto appare tanto più significativo se si pensa che, un anno prima, la diocesi di Vigevano era venuta estendendosi a quasi tutto il territorio lomellino; ne rimanevano escluse solo le parrocchie dipendenti da Vercelli e poche altre. Con una circolare del 20 ottobre 1817 il Vicario vescovile di Pavia avvisa il parroco che con il 1 dicembre dello stesso anno Olevano sarebbe passato alla diocesi di Vigevano, essendo Vescovo Giovanni Francesco Toppia, e lo invita ad informare il popolo di tale avvenimento.

Nell'età della Restaurazione si allargò e divenne una caratteristica di questi anni il fenomeno delle società segrete o sette che operavano nell'ombra e che miravano per lo più alla creazione di stati costituzionali capaci di garantire i diritti civili e politici ai cittadini. Ancora una volta sono i parroci che devono mettere in guardia le popolazioni delle nostre regioni dalle società carbonare: una circolare del Vescovo di Vigevano del 1821 invita a combattere i "carbonari che hanno li progetti infami di rovesciare la religione e sconvolgere i legittimi governi". Sono queste società segrete che organizzarono i moti piemontesi del 1821: l'insurrezione venne bloccata a Torino, ma in altre parti del Piemonte le cose procedettero secondo i piani: tra l'8 e il 12 marzo la rivolta da Alessandria si estese a diverse guarnigioni militari e il sovrano Vittorio Emanuele abdicò a favore del fratello Carlo Felice che in quei giorni si trovava a Modena. Pertanto la reggenza fu assunta dal nipote Carlo Alberto, che concesse la Costituzione. Ma da Modena Carlo Felice sconfessò apertamente l'operato del reggente e gli ordinò di trasferirsi a Novara. I liberali piemontesi si prepararono frettolosamente resistere ai contingenti austriaci che si erano riuniti nel Novarese alle truppe piemontesi rimaste fedeli alla causa monarchica. L'8 aprile presso Novara avvenne uno scontro in cui le forze disorganizzate dei costituzionali furono rapidamente disperse; il giorno 10 le truppe regie entrarono in Torino: il moto si concludeva definitivamente appena ad un mese dal suo inizio. Gli anni che seguirono furono senz'altro negativi per il Piemonte e anche per le nostre terre. La restaurazione che seguì la rivoluzione del '21 chiuse il Regno Sabaudo in se stesso e ciò arrestò la vita culturale, politica ed economica del paese.

La vita nelle nostre campagne si fece tranquilla; si procedette al rinnovo dei contratti stipulati durante il dominio napoleonico: nel 1823 furono rinnovate tutte le investiture livellarie dei beni della nostra parrocchia per far fronte alle tasse imposte dallo stato. I beni di San Rocco passarono alla parrocchia e la stessa confraternita venne ufficialmente ristabilita da sua Maestà "purché siano salve le ragioni della parrocchiale su quella chiesa perché sussidiaria, e che la detta confraternita osservi li regolamenti sinodali sotto le pene del Vescovo...".

Nel 1824 venne restaurata la chiesa parrocchiale; a questo proposito il Comune chiese al parroco di pagare la parte riguardante l'altare di San Giacomo ed Anna, costruito con le rendite del Beneficio Ferri. Dalla risposta del parroco si legge: "è da osservarsi che in allora (cioè nel 1693 quando fu istituito il beneficio) la parrocchiale non consisteva che in un ben piccolo fabricato, e communemente si vuole che sia la sagrestia ora esistente e che serve alla presentanea parrocchiale".

Giovanni Ferri aveva dunque stabilito la somma necessaria alla costruzione di una piccola cappella e non di una delle dimensioni di quella ora esistente, quindi il denaro era appena bastato per la sua realizzazione. Altri lavori furono eseguiti in questi anni nella chiesa di San Rocco. Come già detto, nel 1693 quando fu allungata, sorgeva accanto alla chiesa il "forno della comunità" che ancora esisteva nel 1826. In questo anno il parroco don Giovanni Battista Romussi pregava il Vescovo di Vigevano di intervenire presso il Sindaco per far spostare il forno che "arreca danno alle strutture di San Roccho e crea pericolo d'incendio alla chiesa e alle case vicine"; tale locale potrà poi servire ad ingrandire la chiesa. La nuova ala destra sarà infatti aggiunta a cavallo del 1830: ne sono conferma alcune fatture degli anni '32 e '33.

Nel 1831, morto Carlo Felice, diveniva re di Sardegna Carlo Alberto, che per le sue varie e contrastanti esperienze giovanili poteva anche lasciare adito a qualche speranza di rinnovamento. La breccia al sistema protezionista, con la riduzione del dazio sul grano e con la soppressione dei vincoli annonari, apriva la via ad una certa libertà nel commercio e nell'industria. Nello stesso tempo si risvegliava il vecchio Piemonte agrario: ne è documento quell'Associazione Agraria, istituita nel 1842, che ebbe tanta parte nel rinnovamento economico del paese.

I saggi statistici pubblicati dalla Gazzetta Agraria sulla Lomellina e su altre terre dimostrano il notevole progresso agricolo. Fenomeno caratteristico di quel tempo fu il frazionamento sempre più spiccato della proprietà terriera, che in Lomellina raggiunse i 18 proprietari per kmq. La coltivazione del riso si era andata sempre più diffondendo, passando dai 245 ettari del 1549, ai 12.600 del 1723 e ai 21.339 del 1840. Di conseguenza si ridussero, o addirittura scomparvero, altre colture, come il frumento che, preferendo terreni argillosi e neutri, esige particolari cure nelle nostre zone. Nella prima metà dell' 800 la superficie della provincia di Lomellina (in tutto 124.235 ettari) era così suddivisa:

Terre lavorative con o senza vigneti  58.094 ettari

Vigneti  659 ettari

Prati naturali ed artificiali  15.281 ettari

Terre destinate all'orticoltura  588 ettari

Risaie  21.339 ettari

Boschi - Castagneti  68 ettari

Boschi - Altre specie  11.007 ettari

Pascoli 16.699 ettari

A queste cifre vanno però aggiunti 500 ettari di terreno rimasto ancora improduttivo e consistente in rocce, letti di fiumi e terre non coltivabili. Accanto al riso, terzo per produzione, erano molto fiorenti le colture di granturco e segale, seguite dal frumento, dall'avena, da legumi, patate, barbabietole e ravettoni, uva, canapa e lino[1]. Parallelamente all'agricoltura si sviluppava l'allevamento del bestiame, in special modo bovino, equino e suino, utile ai fini della stessa agricoltura ed agli usi della popolazione. Dai primi anni del XIX secolo si erano pure venute intensificando la coltura dei gelsi ed il conseguente allevamento dei bachi da seta: il Tagliacarne ed il Pollini riferiscono che la nuova produzione venne particolarmente incoraggiata ed estesa tanto dai latifondisti lomellini che dai sudditi misti[2]. I latifondisti appartenenti alla nobiltà milanese, pavese o genovese, di solito affidavano la gestione delle loro proprietà ai fattori, oppure stipulavano contratti d'affitto con i fittavoli; i latifondisti del luogo invece presiedevano personalmente alla coltivazione dei propri fondi. La maggior parte della popolazione era costituita da contadini che si potevano distinguere in tre categorie: bifolchi, giornalieri obbligati e giornalieri liberi. I primi ricevevano un salario annuo aggirantesi dalle 80 alle 100 o 110 lire piemontesi, sei sacchi di meliga e segala, mezzo rubbo d'olio o di lardo e 100 fascine. Oltre a ciò avevano l'alloggio gratuito nei cascinali, qualche tratto d'ortaglia, e la zapperia (per la quale fruivano di un terzo sul raccolto della meliga e dei fagioli). I giornalieri obbligati pagavano invece al padrone l'affitto di casa e dell'appezzamento di ortaglia e ricevevano un compenso giornaliero di 40 centesimi d'inverno e 80 d'estate, mezzo sacco di frumento ed uno e mezzo di segale. Ritiravano pure l'undicesima parte del raccolto per la trebbiatura, stagionatura e pulitura dei suddetti cereali, oltre alla zapperia, ed il 4 o 4,5% sul raccolto del riso a compenso della mietitura, pulitura e stagionatura del risone.

I giornalieri liberi si occupavano di ogni genere di lavoro manuale e percepivano un compenso aggirantesi dagli 80 centesimi alle due lire, a seconda della stagione. L'occupazione delle donne di campagna era, oltre l'agricoltura, la filatura della canapa e del lino, la coltivazione dei bachi da seta e l'allevamento del pollame.

Il Piemonte agricolo volle diventare anche Piemonte industriale: Biella, Novara, Torino producevano ottime stoffe, ed in particolare ottima seta, la cui produzione era alimentata dall'allevamento dei bachi da seta delle nostre zone. In questi anni si inserisce anche la questione ferroviaria: le vie di transito del Piemonte ed il porto di Genova stavano per essere tagliati fuori dalle grandi comunicazioni per opera dell'Austria, ma la situazione poteva essere capovolta se fosse stata realizzata una linea ferroviaria di allacciamento dal porto di Genova a Novara e al Canton Ticino.

La linea fu progettata e realizzata a partire dal 1843 e fece di Genova e del suo porto uno dei maggiori scali commerciali per il nord Europa. La ferrovia, inaugurata il 5 giugno del 1854, portò anche notevoli benefici alla Lomellina che ne era attraversata da nord a sud con ben sei stazioni: Olevano ebbe la sua stazione ferroviaria[3].

Ma la metà del XIX secolo portò altre importanti innovazioni in campo sociale. L’aumento della popolazione e la stabilità politica consentirono al comune di istituire servizi fondamentali per la popolazione quale il medico condotto, documentato dal 1863, la levatrice per la quale è indetto un concorso nel 1856 con uno stipendio annuo di 250 lire, e l’apertura della farmacia di cui si hanno le prime notizie fin dal 1853[4]. Nel 1862 è documentata anche la scuola pubblica con due pluriclassi di prima e seconda elementare suddivise in sezioni maschile (29 alunni) e femminile (63 alunne)[5]. Invece per l’apertura dell’ufficio postale bisognerà attendere fino al 1887, classificato come ufficio di terza classe. L’ufficio telegrafico, presso la stazione ferroviaria, entrò in servizio dal 1 novembre 1885[6]..

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[1] MARIA LUISA MASSAROTTI

Lomellina 1850

Mortara, ne Il Vaglio, Luglio-ottobre 1972

[2] E. Pollini: Annuario 1872

[3] ENRICO POLLINI

Annuario Storico-statistico-agricolo per il 1875

Mortara, Tipografia A. Cortellezzi, 1874

[4] Ecco l’elenco parziale dei farmacisti dell’Antica Farmacia di Olevano: 1853 dott. Rampini Giuseppe, 1861 dott. Afferni Siro; 1889 dott. Bona Edmondo, 1899 dott. Doria Edmondo, 1911 Bozzani Francesco,1939 Brustia Carlo

[5] Nel 1864 il Sindaco Cantella indice il concorso per un maestro: lo stipendio mensile era di 600 lire oltre l’alloggio. Per l’anno scolastico precedente la spesa complessiva era stata di lire 1.310 (100 per i due maestri e 210 per il materiale).

[6]