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società

di Sara Rossi Guidicelli

Perché

esiste

la guerra?

Abbiamo passato qualche anno convinti che ormai le guerre per noi erano cose del passato oppure che appartenevamo ormai soltanti ai paesi lontani. Abbiamo creduto che l’umanità si stava ricredendo: meglio fare affari economici invece che invadere il vicino, conquistare terre, distruggere città.

E invece.

Eccoci qua.

I nostri paesi hanno accolto profughi di guerra europei, l’occidentale nazione di Israele ha bombardato per mesi una parte di sé (o che vorrebbe per sé) e ci siamo ricordati che in realtà i conflitti armati non erano scomparsi, ma che qua e là, un po’ su tutto il pianeta, si continua a uccidere perché qualcosa – si pensa – vale più della vita umana.

Chissà quanto in fretta potremmo ricadere in una guerra mondiale... Come dice lo storico Yuval Harari, nel 1933 la maggior parte dei tedeschi non era psicopatica: perché allora votò per Hitler? Perché la follia entra piano piano nelle nostre vite.

Etologia della guerra

A casa ho un libro, un po’ datato, è vero, ma che prova a rispondere ai maggiori quesiti sull’aggressività umana, domandandosi se la pace sulla terra sia un’utopia o un traguardo raggiungibile. Ovviamente, questo libro ha lo scopo di aiutarci a prendere provvedimenti, prima che sia troppo tardi; si intitola Etologia della guerra, ed è scritto dallo studioso austriaco Irenäus Eibl-Eibesfedt nel 1979 e tradotto in italiano nel 1983. Etologia, devo sempre riflettere un attimo prima di ricordarmene, significa “studio del comportamento”. Questo volume, dunque, tenta di spiegare la guerra attraverso lo studio dei comportamenti umani e animali.

Nella sua parte iniziale, parla di come l’aggressività abbia negli animali una funzione utile: ci spinge a proteggerci, fuggendo o attaccando; oppure ci porta a farci rispettare nei nostri bisogni vitali e nella ricerca di uno spazio per noi. Una cultura troppo pacifica viene spazzata via da una cultura più aggressiva e per questo motivo, fino a stadi di grande sviluppo culturale o tecnologico, erano i più forti e violenti che vincevano e si riproducevano: siamo figli della guerra. Tuttavia, sappiamo che l’essere umano è in grado di smussare e regolare anche i comportamenti più atavici, se vuole: bisogna però capire in modo scientifico ciò che ci induce a combattere e a voler sopraffare l’Altro.

La nostra specie è quella fra gli animali che ha più bisogno di cultura per disciplinare i suoi istinti: grazie alla nostra capacità di adattarci siamo stati capaci, gracili scimmie nude su due zampe e senza coda, di sopravvivere negli ambienti più disparati; siamo stati in grado poi di governare il mondo e di inventare molte cose che qualche anno prima sembravano impossibili: volare, andare a 200 km/h, parlare a distanza, riprodurre immagini...

Ritualizzare le uccisioni

Irenäus Eibl-Eibesfedt rende attenti che gli esseri umani amano le regole fin da piccoli: i bambini si danno regole ai loro giochi che adorano seguire e grazie a queste regole si sentono sicuri e protetti. E poi dice un’altra cosa: «Tra gli animali, è raro che l’aggressività all’interno della stessa spiecie porti all’uccisione del compagno (succede fra leoni di branchi diversi, ratti, scoiattoli volanti e pochi altri, fra cui noi): molto più spesso la morte viene evitata grazie alla ritualizzazione dello scontro e la sottomissione di uno dei due. Negli animali non umani, poi, non si osserva mai un’aggressione collettiva, gruppo contro gruppo, tra specie diverse». Quello che ci accomuna, in quanto animali, è un modo aggressivo di allontanare l’avversario: spaventarlo, minacciarlo, ogni specie animale ha i suoi modi (secernere liquidi repellenti, cambiare colore, fissare, fare rumore...).

Tra alcuni membri di alcune specie, spiega poi il ricercatore, ci sono forme di lotta vera e propria per stabilire chi vincerà.

L’aggressività e il combattimento esistono per vari motivi: diventare il capo, accaparrarsi la femmina, controllare un territorio, mangiare per primo. In altre parole: è un modo che una specie ha di autoregolare la presenza propria presenza distribuendosi su un territorio.

Gli scimpanzé usano alcune forme di armi, come bastoni e oggetti appuntiti ma lo fanno solo per difendersi dai predatori: non cacciano con le armi né le usano per colpire un loro simile.

E allora perché noi uccidiamo i nostri simili?

Abbiamo detto che l’aggressività è presente in moltissimi animali; nell’uomo però questo istinto di protezione prende una forma organizzata che si chiama guerra. Perché? Secondo l’autore del mio libro sull’etologia della guerra è a causa delle armi: primo, siamo come gli scimpanzé che combattono in modo rituale per un territorio, una femmina, il cibo ecc. Secondo, il cervello di scinmpanzé è stato in grado di usare oggetti come armi ma lo stesso cervello inibiva però in modo innato di usarle contro i propri simili; terzo, homo sapiens ha sviluppato capacità di fare armi più performanti; quarto, quella tecnologia sempre più avanzata ha aggirato l’inibizione innata e ci ha spinti a usarle per uccidere. Uccidere sconosciuti o anche membri della propria etnia che in qualche modo riusciamo a considerare ‘altri’, ‘inferiori’, ‘scomodi’. In pratica, siamo un animale capace di inventare strumenti che poi non sappiamo gestire.

Ecco, la guerra non è altro che questa uccisione istituzionalizzata, organizzata ad alti livelli e imposta anche quando ci è passata l’aggressività. Prende il nostro ‘timore dell’altro’ e crea un meccanismo complesso e violento per mantenere le distanze dagli estranei.

E – bisogna aggiungere – fa molto comodo ai capi: invece di doversi battere solo loro, i due più forti e più potenti, ne armano altri cento (mille, milioni) e li mandano combattere convincendoli con tante parole.

Quindi, che fare?

Cerco nel libro una risposta. Eibl-Eibesfedt spiega prima di tutto che da sempre, cioè da quando c’è la guerra, ci sono anche i modi per fare la pace o per evitare la guerra. Si è sempre anche cercato di discutere senza violenza, di limitare l’uso di armi particolarmente dannose o, se proprio battaglia deve esserci, di regolamentarla. Perciò, spiega lui, la parte della ‘società, delle nazioni, delle organizzazioni sovranazionali’ possono e devono fare la loro parte. Se smantelliamo gli Stati, sarà difficile che ci autoregoliamo, ma se diamo loro il potere di fare pace e di mantenere la pace, allora possiamo andare verso un mondo migliore. Se gli Stati non si occupano di mantere viva la nostra specie tutta intera, ma si occupano troppo di una parte di essa (i cosiddetti ‘nostri’ di ogni sottogruppo umano), allora siamo nei guai.

Inoltre, c’è anche un’altra via, più culturale: l’autore spiega che da lontano è più facile uccidere un uomo che da vicino, lo indicano vari studi. I contatti con gli altri, la conoscenza e l’umanizzazione di tutti gli esseri umani è certamente una via per appoggiare l’istinto che inibisce l’uccisione. «L’uomo deve imparare a riconoscere ciò che è diverso come qualcosa di ugualmente valido», conclude il libro, con una nota sull’educazione individuale a scuola e in famiglia. Il bambino deve fare esperienza dell’aggressività, propria e degli altri, imparando mano a mano a impiegarla a fini non distruttivi. Quando si ha paura, o si desidera qualcosa, quando si ha bisogno di un proprio spazio, o se qualcuno fa il prepotente e ci strappa il giocattolo, si deve imparare a comunicare. Tutto comincia lì.

Per natura siamo predisposti sia alla guerra sia alla pace: sta a noi decidere, con la cultura, da che parte andare.